Il seme per l’economia della felicità
Qualche giorno fa, durante una delle serate più calde di Maggio mi sono imbattuta nell’intervista televisiva di una signora davvero particolare: l’attivista indiana Vandana Shiva.
Per chi non la conoscesse, Shiva, dopo la laurea in fisica, si è sempre occupata di problemi legati alla politica ambientale. In India da vita al Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy. Nel 1993 vince il Right Livelihood Award (Premio al corretto sostentamento) e oggi è uno dei principali leader dell’International Forum of Globalization.
Non soddisfatta, gira il mondo spiegando a chi abbia voglia di ascoltare la relazione tra globalizzazione e povertà nel terzo mondo; in particolare quanto l’uso delle monocolture sia dannoso per la salute di tutti i popoli, soprattutto di quelli che basano sull’agricoltura la loro sopravvivenza.
In questo periodo si trova in Italia per l’apertura di alcuni uffici della Navdanya International, una ONG indiana con sede a Delhi di cui è lei stessa presidente. L’obiettivo è quello di sensibilizzare anche il nostro paese allo sviluppo di una agricoltura sostenibile.
Una agricoltura che rispetti l’ambiente e che abbia, a lungo andare, anche un riscontro positivo sull’economia, deve rispettare la diversità biologica e culturale e il simbolo di questa diversità è il seme e conseguentemente il significato che viene dato alla sua proprietà.
In vaste zone del mondo i semi rappresentano il legame tra le generazioni; le varietà selezionate dall’ambiente a da secoli di pratica rurale (quelle che un economista chiamerebbe know how) rappresentano l’unica vera ricchezza di questi popoli. Oggi queste conoscenze vengono rubate dalle grandi aziende agricole che le rivendono come loro proprietà.
Gli stati dell’India, ad esempio, stanno firmando con una serie di multinazionali il Memorandum of understanding (Mou) al fine di privatizzare il patrimonio ecologico; in questo modo le multinazionali avranno il controllo della produzione dei più svariati alimenti (come il granturco, le verdure etc) e le varietà coltivate dagli agricoltori saranno rimpiazzate dalle uniche varietà prodotte, cioè quelle private sotto il controllo delle multinazionali.
Il fine ultimo dei Mou è di privatizzare i semi violando i più basilari diritti degli agricoltori. Per coltivare le uniche varietà acquistabili si avrà bisogno, come già avviene in Sud America, di utilizzare particolari prodotti chimici casualmente prodotti anch’essi dalle medesime multinazionali. In questo modo i contadini saranno sempre più dipendenti dalle grandi aziende agricole per le varietà che devono acquistare obbligatoriamente e per le altre saranno invece vincolati dai brevetti e dai diritti di proprietà.
Abbiamo spesso ricordato che la ricchezza dei contadini è strettamente legata alla conservazione della biodiversità delle specie coltivate e adesso a dichiararlo è anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Le ricerche portate avanti da molte ONG (come Navdanya) mostrano che l’agricoltura ecologica basata sulla biodiversità porterà alla produzione di più cibo di quanto se ne possa aspettare da un’agricoltura basata sulle monocolture. Secondo l’ONU, la biodiversità delle piccole aziende agricole nei sistemi agroecologici potrebbe essere in grado di raddoppiare la produzione di cibo in 10 anni!
Sarà forse questo il punto di partenza dell’economia della felicità?
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