Gamberi mutanti tra le mangrovie del Golfo
È difficile trovare un messaggio positivo nella cronaca di un disastro ambientale; è questo il motivo per cui noi abbiamo scelto di non affrontare questi argomenti e soprattutto non in concomitanza dell’evento. La descrizione, poi, di un fatto drammatico rischia di diventare semplice informazione mentre noi tutti vogliamo che i temi trattati servano da spunto per capire meglio il mondo che ci circonda e, speriamo, per imparare dai nostri errori.
Perciò partiamo da un avvenimento di cronaca che, solo due anni fa, si è guadagnato le prime pagine di tutti i giornali: lo sversamento di grandi quantità di petrolio dalla piattaforma petrolifera della BP, Deepwater Horizon. A seguito di un violento incendio avvenuto sulla piattaforma, dal pozzo sono usciti migliaia di barili di petrolio nell’arco di cento giorni. La quantità impressionante di greggio disperso in mare è stata tale da poter considerare questo incidente come il più grande disastro ambientale che l’America abbia mai dovuto affrontare.
La cronaca, però, finisce qui; a questo punto voglio raccontarvi una storia. Il protagonista di questa storia è un grande organismo, piuttosto complesso che risiede lungo tutte le coste equatoriali del pianeta. Abbiamo avuto in passato occasione di parlarne per la sua ricchezza, la sua forza e soprattutto l’alone di mistero che lo circonda e lo ha reso, in passato, estremamente affascinante a poeti e artisti. Sto parlando, come potrete immaginare, del meraviglioso sistema delle mangrovie.
Benché rappresentino solo lo 0,1% delle terre emerse, i mangrovieti sono importanti serbatoi di carbonio e difendono le coste dalle tempeste tropicali. Molte sono le specie, animali e vegetali, che intrecciano le loro vite al groviglio delle radici di questo maestosi alberi e, anche l’uomo, ha imparato ad amarle e a utilizzarle come rifornimento di cibo, medicine e materie prime. Almeno così è stato finché non l’ha più considerato essenziale per la sua sopravvivenza; per i suoi nuovi obiettivi il mangrovieto rappresentava solo un intralcio all’allevamento intensivo di pesci e gamberi.
Da questo momento in poi l’equilibrio tra la mangrovia e l’uomo si è rotto e oggi non staremmo qui a parlarne se quel tremendo fatto di cronaca non si fosse venuto ad interporre nell’ahimè normale conclusione di un’alleanza tradita.
A distanza di due anni dal disastro qualcosa di terrificante sta avvenendo nel Golfo del Messico: la maggior parte dei pesci e dei crostacei pescati (attività alla base dell’economia dell’area) sono dei perfetti mutanti.
I pescatori del luogo non riescono a capacitarsene: gamberetti senza occhi, granchi con gusci molli e pesci con profonde ferite sono solo alcune delle deformazioni riscontrate. Non ci sono dubbi, qualcosa è cambiato nel patrimonio genetico degli animali.
E’ noto che la BP ha rilasciato nelle acque del Golfo dei solventi per sciogliere il petrolio disperso in mare ma, si sa, i solventi sono tossici e ciò potrebbe spiegare le deformità rinvenute nei crostacei.
I gamberetti, in particolare, hanno un ciclo di vita breve e possono essere sufficienti due anni perché l’esposizione a un particolare agente mutageno possa portare dei cambiamenti nel genoma stesso dell’animale.
Nonostante il NOAA (Oceanic and Atmospheric Administration) ammetta che questa alta percentuale di mutazioni non si era mai verificata prima del disastro, il governatore della Louisiana, Bobby Jindal, continua a garantire rigidi controlli su tutto il pesce pescato e commercializzato. La BP, chiaramente minimizza ma ha attivato indagini in diversi campi per valutare i danni potenziali.
Fatto sta che le lesioni ci sono e stanno decimando alcune tra le più importanti specie del golfo; che siano provocate dai solventi stessi o da super batteri modificati geneticamente dai solventi, poco cambia. L’importante è capire cosa aspettarsi nel prossimo futuro.
Una risposta potrebbe arrivare, però, proprio da quel grande organismo che abbiamo fin ora considerato ben poco, la mangrovia. Il Dott. Andrew Whitehead, professore associato di biologia alla Louisiana State University è riuscito a dimostrare lo stretto legame tra l’inquinamento chimico dovuto al petrolio e gli impatti negativi sulla catena alimentare delle mangrovie. Chi ha studiato per tutta la sua vita questo ecosistema sa che il Killifish (un pesciolino all’apparenza insignificante nella forma e nel colore) è un perfetto indicatore dello stato di salute dell’ecosistema. Studiare l’impatto dell’inquinamento su questa specie significa avere un’idea chiara delle ripercussioni su tutto l’ecosistema.
Purtroppo i dati non lasciano molte speranze; al momento il povero Killifish non se la passa per niente bene con una diminuzione delle aspettative di vita e crescenti insuccessi riproduttivi. Non è difficile quindi concludere che, quello che sta succedendo oggi ai gamberetti non può che essere l’inizio; il primo passo di un attacco che non risparmierà nessuno degli anelli della catena. Gli stessi biologi hanno già potuto associare la morte di centinaia di delfini all’ingestione di pesci e crostacei contaminati.
La strada è ancora tutta in salita. Trenta anni fa un evento simile, il disastro petrolifero di Campeche in Messico, aveva messo in ginocchio l’ecosistema costiero e tutta l’economia a esso legato e ancora oggi il mangrovieto non si è ripreso del tutto.
La fine di questa storia? È ancora tutta da scrivere; non è facile prevedere come evolverà e se la natura riuscirà a liberarsi dalla morsa fatale dell’inquinamento. Certo è che la mangrovia e i suoi abitanti lotteranno con tutte le loro forze per non soccombere al putrido invasore nero ma il numero delle vittime sarà, purtroppo, enorme.
Link:
- http://ht.ly/aney1
- http://www.theecologist.org/reviews/books/1310050/let_them_eat_shrimp_the_tragic_disappearance_of_the_rainforests_of_the_sea.html
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