L’intelligenza delle piante
Michael Pollan è un giornalista americano, esperto di nutrizione e cultura del cibo. Qualche tempo fa è apparso sul New Yorker un suo dettagliatissimo reportage sul comportamento delle piante, le loro capacità di apprendimento e di percezione dell’ambiente.
La cosa mi ha reso molto felice un po’ perché mi sono orgogliosamente resa conto che noi di Imperial Bulldog ce ne siamo occupati ancor prima del famosissimo New Yorker, ma soprattutto perché un reportage così curato ci dà la possibilità di addentrarci un po’ di più nel mondo fantastico che i più coraggiosi chiamano” neurobiologia vegetale”.
Tralasciando gli pseudo studi new age sulle capacità di telecinesi delle piante che imperversarono negli anni ’80, Michael Pollan è riuscito a entrare in contatto con i nuovi sostenitori della coscienza delle piante. Il loro manifesto fu un articolo pubblicato nel 2006 da fisiologi e fitobiologi di tutto il mondo il cui rappresentante più illustre è certamente lo scienziato italiano Stefano Mancuso.
L’articolo che definiva il loro pensiero, metteva alla luce una realtà indiscutibile: le piante mostrano di avere una certa forma di intelligenza e una capacità intrinseca di elaborare informazioni, che consente loro di prendere decisioni ottimali riguardo alle proprie attività future in un dato ambiente. Secondo i sostenitori di questa linea di pensiero, noi esseri umani dobbiamo smetterla di considerare le piante come esseri passivi ma renderci conto che anch’esse sono protagoniste attive e molto abili a gareggiare tra loro in natura.
Come potete immaginare, la reazione della maggior parte della comunità scientifica è stata feroce forse perché si rischia di attribuire a una pianta sensazioni e umori tipici degli animali ma, spiega Mancuso, nessuno ha mai voluto affermare che l’intelligenza delle piante fosse simile a quella degli animali!
La loro forma di intelligenza somiglia piuttosto a quella delle colonie di insetti o degli stormi di uccelli, in cui l’assenza di un cervello centrale è compensata dalla formazione di una fitta rete di connessioni (chimiche, fisiche etc.) che permettono il realizzarsi di comportamenti complessi.
Proprio perché vivono ancorate al terreno, le piante sono state obbligate a sviluppare più di 20 sensi. Persino l’udito sembra essere prerogativa del regno vegetale; è stato dimostrato che la sola registrazione di un bruco che mastica una foglia, sia sufficiente a mettere in moto in alcune piante un meccanismo di difesa con la produzione di sostanze chimiche.
Tutte le sensazioni che riesce a percepire sono elaborate assieme e, alla fine, la pianta “decide” in quale direzione sviluppare radici e foglie; in pratica assume un “comportamento” diverso a diverse condizioni ambientali.
Un altro campo su cui stanno puntando molto i cosiddetti neurobiologi vegetali è il complesso di segnali chimici e fisici che utilizzano per comunicare tra loro o con gli animali. Una pianta attaccata da un bruco, ad esempio, avvisa le piante vicine del possibile attacco o richiama altri insetti che si cibano del loro parassita. Le piante, spiega Mancuso, hanno nel loro vocabolario più di 3000 sostanze chimiche che utilizzano come parole per comunicare mentre, uno studente universitario medio, ne conosce solamente 700!
Alcune piante, poi, hanno dimostrato di essere capaci di apprendere dall’esperienza. Nel nostro articolo pubblicato lo scorso anno, abbiamo parlato della mimosa che ha imparato a distinguere gli stimoli dannosi da quelli neutri. Nel 2013, Michael Pollan ha partecipato a Vancouver al convegno della Society for plant signaling and behavior e ha avuto la fortuna di ascoltare proprio la presentazione di Monica Gagliano, la ricercatrice che ha scoperto la memoria nelle mimose.
Il suo e molti altri studi pare dimostrino che cervello e neuroni potrebbero non essere necessari per imparare e che, se definiamo intelligenza la capacità di reagire nel modo migliore alle diverse situazioni, non c’è motivo per non riconoscere l’intelligenza delle piante.
Forse – conclude Pollan – la parola che più ci spaventa associare alle piante è “coscienza”. Se le piante sono coscienti alla stregua degli animali, allora, dovrebbero provare dolore che, per tutti gli esseri viventi, è un tratto adattativo per fuggire al pericolo.
Le piante, quindi, sono sensibili e intelligenti; meritano rispetto e, per questo motivo, dobbiamo impegnarci ancora di più nel preservare i loro habitat ma, ci rassicura Mancuso, non per questo dobbiamo smettere di mangiarle. Per fortuna, sono state talmente intelligenti da sfruttare la loro facoltà di essere mangiate come strategia evolutiva.
Per approfondire:
http://www.newyorker.com/reporting/2013/12/23/131223fa_fact_pollan?currentPage=all
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