Le ali spezzate
La caccia in Italia
Benché il numero dei cacciatori in Italia sembri in continua decrescita, un’indagine realizzata da AstraRicerche per il Comitato Nazionale Caccia e Natura mostrerebbe un clima di crescente favore degli italiani per chi svolge, legalmente, l’attività venatoria.
Secondo i dati elaborati dal citato centro di statistica, sulla base di 2.025 interviste realizzate su un campione rappresentativo di cittadini italiani tra i 18 e gli 80 anni, è emerso che la maggioranza degli intervistati si sente vicino ai cacciatori e alle loro richieste. Dato più preoccupante, il sondaggio individuerebbe il cacciatore medio in un ragazzo giovane, al di sotto dei 35 anni, proveniente dai piccoli centri dell’Italia centromeridionale, smentendo l’opinione comune che cacciare sia un’attività praticata solo da persone in là con gli anni e quindi destinata a rimanere marginale.
E’ evidente, quindi, che l’attività venatoria può ancora rappresentare un grave stress per la fauna selvatica, non solo se praticata in maniera illegale, ma anche secondo la normativa vigente che, almeno in Italia, presenta vuoti e clamorose contraddizioni che proprio non si conciliano con l’obiettivo primario di conservazione e protezione delle specie.
Cerchiamo di capirci un po’ di più.
La legge sulla caccia
In Italia la caccia è disciplinata dalla legge dell’11 febbraio 1992, n. 157, intitolata “Norme per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio”.
La legge, che recepisce la Direttiva europea 79/409/CEE “Uccelli” ha, quindi, come obiettivo primario, quello di stabilire le norme per la protezione degli animali selvatici e, solo di conseguenza, dettare le regole generali per l’esercizio della caccia.
Uno degli aspetti più importanti della norma è la richiesta, per le regioni, di istituire dei Piani Faunistici Venatori. Tramite queste forme di programmazione le regioni dovrebbero gestire l’attività dei cacciatori presenti sul territorio per permettere la conservazione della fauna selvatica.
Secondo la norma, il territorio regionale deve essere così suddiviso: una percentuale che va dal 20 al 30% destinato alla protezione della fauna (all’interno di questa frazione rientrano i parchi nazionali e regionali, le oasi di protezione e i fondi chiusi); un 15% all’istituzione di aree private di caccia (le cosiddette aziende faunistico – venatorie) e il restante territorio alla normale attività venatoria.
Oltre a dover possedere una licenza di caccia, il cacciatore è tenuto a rispettare le prescrizioni riguardanti sia il tipo di armi da utilizzare, sia il modo in cui la caccia dovrà svolgersi. Ad esempio, è espressamente vietato l’uso di silenziatori nei fucili e c’è un limite nel numero di cartucce a disposizione per ciascun cacciatore.
Anche il modo in cui si svolge la caccia è definito dalla legge quadro. Il cacciatore, al momento della richiesta della licenza, deve scegliere se effettuare una caccia vagante o tramite appostamenti fissi e attenersi a tale scelta. Purtroppo, per questa ultima tecnica, la legge permette l’utilizzo di richiami vivi che altro non sono se non uccelli, catturati e ingabbiati, per attirare la fauna selvatica.
Le informazioni più importanti estrapolabili dalla legge quadro sono racchiuse nell’articolo 18 nel quale sono stabiliti i periodi in cui la caccia è consentita e, dato ancora più importante, quali specie possono essere catturate. A seconda dei dati statistici sulla presenza della fauna selvatica nel territorio, le regioni possono decidere se estendere o restringere il periodo venatorio sempre entro i limiti massimi stabiliti dalla legge n.157 e mai nel periodo di ritorno al luogo di nidificazione. Esistono, poi, divieti riguardanti le distanze di sicurezza o l’utilizzo di macchine o natanti.
A coloro che trasgrediscono queste norme sono corrisposte delle sanzioni penali per reati gravi, come l’uccisione di specie protette, o semplici sanzioni amministrative per i comportamenti di minore importanza, come il mancato pagamento delle relative tasse.
Guida interpretativa della Commissione Ambiente alla Direttiva 9/409/CEE “UCCELLI”
Come abbiamo accennato in precedenza, la direttiva “Uccelli” nasce in primo luogo per tutelare le specie selvatiche, siano esse stanziali o migranti. Era prevedibile che la regolamentazione della caccia a partire da questo testo non fosse semplice da disciplinare e che creasse una serie di contrasti tra la Commissione e gli Stati membri.
Nel 2002, l’Unione Europea ha pubblicato una guida interpretativa per favorire un’interpretazione univoca delle prescrizioni incluse nella direttiva. L’obiettivo primario della guida era di aiutare i governi degli Stati membri a interpretare quei passaggi che risultassero più articolati in modo tale da evitare loro costose procedure di infrazione e condanne della Corte di Giustizia Europea.
I punti messi a risalto dalla guida sono pochi e chiari:
- Limitare o vietare la caccia nelle zone di protezione speciale (ZPS) perché potrebbe creare disturbo alle popolazioni di animali che le popolano.
- Concedere agli Stati membri la possibilità di imporre misure nazionali più restrittive rispetto alla normativa europea e dare a ciascuno Stato membro la facoltà di vietare la caccia a specie che, per la direttiva risultano cacciabili.
- Attuare tutte le misure per far si che la caccia diventi sostenibile, cioè compatibile con il mantenimento delle popolazioni delle specie interessate. Perché l’esercizio venatorio possa essere considerato tale, è necessario che il cacciatore sia pienamente cosciente degli effetti del suo prelievo sulle popolazioni.
- Porre un’attenzione particolare agli uccelli migratori e alle rotte migratorie poiché una caccia eccessiva lungo una rotta migratoria potrebbe compromettere le azioni di conservazione intraprese in altri luoghi.
- Vietare la caccia di specie in stato di conservazione precario e nei periodi di riproduzione e migrazione prenuziale.
- Concedere le deroghe di caccia solo in situazioni eccezionali. La guida rammenta agli Stati che le deroghe di caccia sono tollerate solo se sussistono motivazioni valide e non sono possibili soluzioni alternative soddisfacenti.
Il complesso normativo attuale è sufficiente a proteggere la natura?
Un dettagliato rapporto del WWF Italia pubblicato nel 2004 denuncia, senza alcuna remora, il danno che la caccia ha procurato al nostro paese.
In un momento in cui si moltiplicano le iniziative per modificare in senso peggiorativo le norme e, per di più, si continua a essere testimoni della mancata applicazione della legge quadro, il WWF denuncia alcune tradizioni tutte italiane, come ad esempio quella della caccia errante, che permette al cacciatore di spostarsi a piacimento e sparare anche nei fondi altrui senza il consenso del proprietario.
Le singole regioni, poi, nell’ottica di ampliare il più possibile l’area in cui è lecito cacciare, nel calcolo del famoso 20-30% di territorio destinato alla protezione della fauna, inseriscono anche i bordi delle strade e delle ferrovie che, certamente, non possono avere un ruolo determinante a tale scopo.
Secondo le indicazioni dell’INFS (l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica), presenti anche nella legge quadro, per determinare il numero massimo di cacciatori per una regione è necessaria una conoscenza approfondita della situazione faunistica ambientale di un territorio e ciò è possibile solo attraverso:
- la censibilità delle specie oggetto di caccia e l’acquisizione di dati sulla consistenza numerica delle singole specie;
- il calcolo della quota prelevabile nel corso della stagione venatoria e la fissazione di un tetto di abbattimento, compatibile con la conservazione;
- il controllo severo sul territorio per il rispetto del piano di abbattimenti programmato.
Risulta ovvio a questo punto che, anche nel caso in cui dovessero esser rispettati i primi due presupposti, il mancato controllo del prelievo, causato dalla vastità dei territori e senza conoscere gli utenti di quell’area, vanifica qualsiasi tentativo di programmazione venatoria e di conservazione faunistica.
Nel corso degli anni, in quasi tutte le regioni, poi, si è diffusa l’abitudine di consentire la preapertura della caccia al 1 settembre, anziché dalla terza domenica del mese. L’anticipo della stagione venatoria è chiaramente in contrasto con l’esigenza di tutelare la fauna, non solo perché, a quella data, molte specie hanno ancora i piccoli, ma anche perché questa decisione avviene senza alcuna conoscenza specifica sullo status delle popolazioni, sul successo riproduttivo e quindi in mancanza di dati sulla mortalità naturale per quella particolare stagione. Per una gestione della fauna che non sia distruttiva, il requisito fondamentale dovrebbe essere la conoscenza dei dati sulla consistenza della popolazione della specie che si intende cacciare, in modo da calcolare e programmare un tetto massimo di abbattimenti, raggiunto il quale, la caccia andrebbe chiusa.
Alla questione si lega strettamente il problema dei cosiddetti “limiti di carniere”, cioè del numero di capi abbattibili per ogni singola giornata di caccia da ciascun cacciatore. Molti calendari venatori prevedono come limiti di carniere dei tetti giornalieri altissimi; moltiplicando queste cifre per il numero di cacciatori e per tutte le giornate di attività, risulta che una regione autorizzerebbe l’abbattimento di un numero di esemplari per ciascuna specie molto superiore al totale della fauna di quella particolare specie su tutto il territorio nazionale (figuriamoci di quello regionale!).
Oltre al danno diretto causato dalla caccia e che ha determinato, talvolta insieme ad altri fattori antropici, la rarefazione delle popolazioni stanziali, si deve aggiungere quello dell’inquinamento genetico provocato dall’immissione di specie provenienti da altre regioni e con caratteristiche ecologiche diverse, per il solo scopo di incrementare il numero degli esemplari cacciabili. E’ questo il caso del cinghiale che, perseguitato già dal XVI sec., era scomparso da diverse regioni italiane. Dagli anni ’50 ebbe inizio una serie di attività di introduzione di esemplari provenienti dall’est europeo, diversi in dimensioni, robustezza e prolificità rispetto alla specie italiana. Ciò ha determinato una sua forte espansione territoriale (dalla Valle d’Aosta alla Calabria) con interferenze negative con certi tipi di coltivazioni.
Oltre alla normale attività di caccia si deve tenere in considerazione la diffusa pratica del bracconaggio notturno effettuata, specie nelle regioni meridionali, con i fuoristrada e con potenti fari, anche in periodo di caccia chiusa, pratica favorita dall’assenza delle attività di vigilanza venatoria nelle ore notturne.
Secondo l’art. 27 della legge quadro la vigilanza venatoria è affidata “agli agenti dipendenti degli enti locali delegati dalle regioni e alle guardie volontarie delle associazioni venatorie, agricole e di protezione ambientale nazionali presenti nel Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale e a quelle delle associazioni di protezione ambientale riconosciute dal Ministero dell’Ambiente, nonché, agli ufficiali, sottufficiali e guardie del Corpo Forestale, alle guardie dei Parchi nazionali e regionali, ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, alle guardie giurate comunali, forestali e campestri alle guardie ecologiche e zoofile riconosciute da leggi regionali”. In realtà il rapporto tra il numero di guardie venatorie provinciali, quelle cioè preposte specificamente al controllo dei cacciatori per reprimere le violazioni di legge,e i cacciatori è stato sempre caratterizzato da una sproporzione enorme; in media, in Italia, vi è un’unica guardia per 625 cacciatori.
Ma la difficoltà di eseguire controlli efficaci non dipende solo dallo squilibrio tra agenti di vigilanza e cacciatori, quanto dalla vastità dei territori da controllare e da quella serie infinita di stratagemmi e scappatoie che è facile mettere in atto per non incorrere nelle sanzioni.
Al danno arrecato alla fauna dall’attività venatoria legale, si deve aggiungere quello di proporzioni enormi connesso al bracconaggio che in Italia si manifesta regolarmente secondo una varietà smisurata di pratiche. Una prova inconfutabile di quanto questo fenomeno sia strettamente connesso alla caccia, è rappresentata dalla grande impennata dei ricoveri di animali protetti, soprattutto uccelli rapaci, in coincidenza con il periodo dell’attività venatoria e dalla rilevante incidenza percentuale delle ferite da fucile da caccia come causa di ricovero nei diversi centri di recupero di fauna sparsi su tutto il territorio e gestito dalle Associazioni protezionistiche o da amministrazioni provinciali.
Di solito, di fronte a questi dati di fatto, i cacciatori sono soliti creare una distinzione tra “il vero cacciatore” che rispetta la legge e il “bracconiere”, come se quest’ultimo fosse una figura a parte, mentre basterebbe esaminare i verbali redatti dagli agenti preposti alla vigilanza venatoria per rendersi conto che se è vero che non tutti i cacciatori sono bracconieri, è altrettanto vero che più dell’80% dei reati di bracconaggio è commesso da persone dotate di licenza di caccia.
Il bracconaggio in Italia
Durante la stagione venatoria 2013-2014 sono aumentati i crimini commessi dai cacciatori ai danni della fauna selvatica. Per far luce sulla realtà della caccia e del bracconaggio, per il terzo anno consecutivo, il CABS (Committee Against Bird Slaughter) e la Lega per l’Abolizione della Caccia hanno raccolto ogni segnalazione comprovabile di reati commessi ai danni di animali selvatici e hanno stilato un calendario che permette di far luce su quanto il mondo della caccia non vuole far sapere: e cioè che il bracconaggio in Italia é praticato principalmente da cacciatori con licenza di caccia (81%) e che l’attività di caccia illegale è sistematicamente diffusa sul territorio ed è una reale minaccia per uccelli e mammiferi.
“Sappiamo che migliaia di casi non vengono trasmessi alla stampa e decine di migliaia di reati non vengono mai scoperti. – commenta Andrea Rutigliano, redattore del calendario per il CABS – Basti pensare che secondo i dati raccolti dalla vigilanza WWF di media un cacciatore su 4 fermato in un momento qualsiasi, viene sorpreso a commettere un reato. Quelli che abbiamo raccolto sono solo la punta di un iceberg: ritengo però che sia uno specchio piuttosto fedele di quanto rimanga sommerso”.
– Calendario del cacciatore bracconiere 2013-2014
Dal gennaio 2011 il CABS (Committee Against Bird Slaughter), in collaborazione con la LAC (Lega Abolizione Caccia), raccoglie su base giornaliera tutte le informazioni disponibili relative a reati commessi da cacciatori e bracconieri di nazionalità italiana ai danni della fauna selvatica. Dalla raccolta di questi dati viene compilato il cosiddetto Calendario del Cacciatore Bracconiere, che rappresenta la più completa rassegna del fenomeno del bracconaggio disponibile al momento.
L’obiettivo perseguito è di osservare il fenomeno della caccia illegale, l’evoluzione delle sue forme, identificare i territori dove vengono commessi il maggior numero di reati e analizzare l’impatto sulla biodiversità.
Il lasso temporale a cui fa riferimento la raccolta di dati è 01/02/2013 fino al 31/01/2014, ovvero dal primo giorno di chiusura ufficiale della precedente stagione di caccia, fino all’ultimo giorno della stagione di caccia appena terminata.
I dati raccolti provengono da articoli di giornale, comunicati stampa delle forze preposte ai controlli venatori, newsletter del CFS e dai resoconti pubblicati dalle Guardie Venatorie Volontarie di WWF, ENPA, LAC, ANPANA, Legambiente, LIPU.
Sono stati raccolti 548 casi di reati rilevanti contro la fauna selvatica, che hanno coinvolto 1133 persone. Di queste 1133 persone, il 70% (818 persone) era a caccia di uccelli, mentre il 30% (356) era a caccia di mammiferi.
I reati commessi più frequentemente dai cacciatori/bracconieri sono l’uso di richiami elettromagnetici per attrarre gli uccelli a portata di fucile (22% dei casi) e l’abbattimento di specie particolarmente protette (20%). Segue la caccia in zona di divieto (12%), la caccia a specie protette (11%), la caccia con lacci, reti, trappole e tagliole (11%), la caccia in periodo di divieto (10%), la caccia notturna (6%), la caccia con fucili alterati (5%). Riportati raramente sono i casi di uso di veleno, di caccia dalle automobili e di superamento dei limiti giornalieri di abbattimenti (1%).
L’80% dei reati venatori vengono commessi e scoperti durante la stagione di caccia, mentre solo il 20% nel periodo che va da febbraio ad agosto. Solo fra ottobre, novembre e gennaio sono stati riscontrati il 60% di tutti i reati commessi nel corso dei 12 mesi.
I reati venatori coinvolgono 90 province sulle 110 province italiane e tra quelle con maggior numero di reati troviamo Brescia (8%) e Salerno (7%). E’ da notare che le province di Cagliari, Firenze e Bolzano sono quelle in cui emerge che i reati venatori vengono compiuti principalmente da persone sprovviste di licenza di caccia mentre nelle altre province i reati sono compiuti da cacciatori provvisti di licenza.
Le regioni con maggior numero di bracconieri sono la Campania (17%), la Lombardia (15%), la Puglia (11%) e la Calabria (10%). La regione più virtuosa è la Val d’Aosta dove non è stato registrato nessun reato di bracconaggio. Su base regionale, la Serdegna è l’unica regione dove vi sono più bracconieri che cacciatori, nel resto d’Italia sono i cacciatori a bracconare.
Esclusi i piccoli passeriformi superprotetti, gli animali protetti uccisi nella stagione passata sono 171. Fra questi spiccano 2 orsi e 21 lupi, 4 cervi della sottospecie sarda, 121 rapaci, 4 trampolieri, 4 rapaci notturni (gufi e allocchi), 1 fenicottero, 2 cigni, 3 corvi imperiali, 2 aironi e 7 ibis (fra i quali gli ibis eremita allevati a mano provenienti dal progetto austriaco di reintroduzione della specie). Se i dati dei centri di recupero fauna selvatica venissero raccolti e messi a disposizione su base annua, questi numeri salirebbero di molto. Purtroppo al momento questi dati non sono disponibili.
Il fatto che più dell’ 80% dei reati più gravi vengano compiuti da cacciatori veri e propri dimostra come il fenomeno sia ormai ben radicato nel territorio. Non vi è una percezione diffusa del danno arrecato dal bracconaggio al patrimonio naturale collettivo e in questo senso non vengono prese dalle amministrazioni le giuste misure volte a isolare i bracconieri.
Il bracconaggio si rivolge principalmente agli uccelli migratori ancora considerati da sfruttare. Icacciatori italiani sono famosi per la loro attività durante i viaggi all’estero: camion con tonnellate di uccelli uccisi vengono regolarmente intercettati alle dogane nei paesi dell’est europeo (Albania, Romania, Croazia), prova dei massacri compiuti dai cacciatori italiani in trasferta. Ha fatto scalpore la decisione presa pochi mesi fa dal governo albanese di chiudere la caccia per due anni su tutto il territorio nazionale proprio per difendere la propria fauna dai turisti-cacciatori italiani.
Ma i bracconieri italiani non si fermano nemmeno di fronte alle aree protette; cacciatori vengono sorpresi regolarmente nel parco d’Abruzzo, nel Cilento e nel Velino Sirente. il fatto che i bracconieri utilizzino sempre le stesse zone o compiano sempre gli stessi reati è sintomo di un sistema sanzionatorio che non funziona più come deterrente. Se a questo si aggiunge la consapevolezza che i controlli sono pressoché assenti, si può ben comprendere quanto il fenomeno sia ormai ingestibile.
I campi Lipu antibracconaggio
Dal 1984, per combattere il bracconaggio e difendere le specie protette del nostro paese, la Lipu organizza i campi di sorveglianza che coinvolgono volontari e operatori specializzati.
I campi antibracconaggio della Lipu svolgono un’importante azione di controllo e difesa del territorio italiano, soprattutto nei territori caldi in cui sono più frequentemente commessi i reati contro la fauna selvatica.
Valli del bresciano: in queste aree, da settembre a metà novembre, è tradizionale la cattura di piccoli passeriformi per il consumo e commercio gastronomico. I volontari Lipu rimuovono le trappole e segnalano i bracconieri al Corpo Forestale dello Stato. L’attività condotta negli anni ha prodotto circa 1000 comunicazioni di reato inviate all’autorità giudiziaria e 1690 reti rimosse.
Basso Sulcis, Sardegna: in questa delicatissima area la Lipu è presente con un campo antibracconaggio invernale avente lo scopo di contrastare il fenomeno della cattura dei tordi. I volontari percorrono i sentieri delle colline intorno ai comuni di Capoterra, Uta, Santadi e Assemini, dove rimuovono le trappole e le reti per la cattura degli uccelli. Al campo si è aggiunto un grande progetto europeo di comunicazione (Life+, Comunicazione e Informazione) che agirà soprattutto sul versante culturale, di formazione, informazione e coinvolgimento di popolazione, scuole, istituzioni e forze dell’ordine, per combattere più a fondo il fenomeno.
Stretto di Messina, versante calabrese: presidio storico antibracconaggio. Dal 1984 la Lipu organizza il campo di sorveglianza sullo Stretto che migliaia di rapaci e centinaia di cicogne attraversano in migrazione. Gli uccelli sono abbattuti dai bracconieri, talvolta appostati in veri e propri bunker; i volontari della Lipu presidiano i più importanti punti di passaggio segnalando i casi di bracconaggio al Nucleo Operativo Antibracconaggio della Forestale. Grazie alla sorveglianza continua, il fenomeno è drasticamente calato, sebbene rimanga ancora estremamente preoccupante.
Aquila del Bonelli: la Lipu insieme ad altre associazioni organizza un campo di sorveglianza ai nidi dell’Aquila del Bonelli in Sicilia. I piccoli sono oggetto di furto da parte di bracconieri, che li destinano al mercato illegale dei rapaci. I volontari sorvegliano i nidi impedendo che i bracconieri si avvicinino, permettendo così ai piccoli di crescere e volare via e alla specie di conservarsi nel tempo.
Per ulteriori informazioni e iniziative vi consiglio di visitare il sito della Lipu.
Per approfondire:
- http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1992;157
- http://ec.europa.eu/environment/nature/conservation/wildbirds/hunting/docs/hunting_guide_it.pdf
- http://www.komitee.de/en/homepage
- http://www.lipu.it/campi-antibracconaggio-lipu
- http://www.federcaccia.org/progetti_ricerche.php?idn=8
- http://www.kora.ch/malme/05_library/5_1_publications/W/WWF_Italia_-_L_attivita_venatoria_in_Italia_in_rapporto_alla_conservazione_faunistica.pdf
Il falco..
Queste sono le immagini di un falco Pellegrino ( specie protetta) impallinato e operato dal WWF presso il centro dell’Oasi di Valpredina, al quale sono state trapiantate le penne danneggiate dai pallini. Liberato, nei giorni scorsi è stato impallinato una seconda volta dai bracconieri che frequentano la zona industriale del Comune di Zandobbio e la frazione Selva. Ogni tentativo di salvarlo, questa volta, è stato vano ed è morto due giorni dopo.
Penso a tutta l’energia spesa dai volontari del WWF per curare il falco e alla vita persa di un animale così raro come contropartita di un atto così distruttivo da parte del bracconiere.
Ciao
Alla lista di Ferdinando per i motivi di stress non abituali aggiungerei anche il comportamento di alcuni propietari dei fondi e dei terreni e, entro certi limiti e per certe zone, il disturbo da attività fotografica non eticamente svolta. Mi è infatti capitato quest’anno di riscontrare l’aratura senza apparenti motivi di un campo in cui era insediata una colonia di 80-120 gruccioni proprio nel periodo della nascita dei piccoli (regolarmente denunciata alla Direzione Parco Circeo e alle Guardie forestali) e l’uso di richiami elettromagnetici per la fotografia. In generale rilevo una totale perdita di interesse verso tematiche ambientali da parte della gente, complici almeno 20 anni di sciagurata gestione politica. Forse da qui proviene la “assuefazione” ai danni del bracconaggio. Sono d’accordo con l’esigenza di aree integrali strettamente controllate (anche se come si fà a proporlo per esempio per il Parco del Circeo se a ridosso dell’area di maggior pregio del Parco, gli Stagni di Sant’Andrea, è assurdamente attivo da anni un poligono di tiro volante utilizzato dalle forze armate?). Come anche Ferdinando sa bene, sono però contrario alla natura protetta solo per se stessa. L’uomo ne è da sempre parte e compatibilmente con le possibilità e le esigenze dell’ambiente, credo che abbia il diritto di goderne, soprattutto quando questa è integra. A titolo di puro esempio io stesso in anni di frequentazione del Parco d’Abruzzo non ho mai potuto vedere (e fotografare) un orso nel suo ambiente naturale, nonostante vi siano zone in cui è possibile e frequente. Magari aiutato dalle guardie forestali preferirei avere negli occhi la visione di un orsa con i piccoli che vivere nel suo mito.
Articolo chiaro che fa il punto della situazione in Italia di questo grave problema. Se aggiungiamo che durante il periodo riproduttivo gli animali sono sottoposti ad altri tipi di “stress”, la situazione per la fauna italiana sta diventando drammatica. Nel corso di quest’anno in giro per ricerche faunistiche (provincia pontina), anche nelle ZPS, SIC e Parchi (Nazionali e Regionali), ho registrato situazioni incontrollabili e purtroppo (per la fauna) in forte aumento (Arrampicata, deltaplani, motocross, MTB, “gun games”). Si dovrebbe cominciare ha parlarne…cosa ne pensi?
Grazie Ferdinando,
apprezzo il tuo commento e sono pienamente d’accordo con te.
Quest’inchiesta serviva a fare il punto della situazione sull’impatto dell’attività venatoria nella fauna selvatica italiana ma, certo, esistono altri fattori di disturbo che contribuiscono a rendere ancora più critica la situazione.
Come avrai potuto notare conducendo le tue campagne, esistono parchi nazionali o regionali, oasi naturalistiche, SIC o ZPS che sono letteralmente assediati dalle attività antropiche. Un esempio su tutti proprio il nostro Parco Nazionale del Circeo che, disegnato con squadra e righello, sembra un miracolo che sia ancora lì, con tutte le meravigliose creature che lo abitano o, per rimanere in tema, che decidono di farvi tappa durante la migrazione.
Ritengo ( o forse spero) che l’approccio con cui relazionarsi a un climber possa essere radicalmente diverso rispetto a quello dovuto a un cacciatore. Secondo il mio (del tutto personale) parere, chi rivendica il suo diritto di uccidere, per puro divertimento, un altro essere vivente, dovrebbe essere consapevole che la sua libertà di azione è limitata da una serie di norme inderogabili, eluse le quali, le pene dovrebbero essere esemplari. Lo “sportivo” fruitore dell’area naturale, invece, non è quasi mai consapevole del danno che la sola presenza può provocare alle specie selvatiche. E’ questo il motivo per cui, in linea con ciò che si sta mettendo in pratica in altre zone d’Italia, per arginare il disturbo causato dalle attività sportive in natura, non servono divieti nè ordinanze. Sarebbe necessario creare zone di rifugio in cui è severamente vietato l’accesso, accompagnate da segnali che indichino il senso e l’obiettivo della tutela speciale. Individuare tutte le aree che necessitano di protezione speciale e, non meno importante, permettere l’attività sportiva in altre.
So che non si tratta di una vera soluzione ma, non potendo eliminare l’uomo dalle zone protette, possiamo solo educarlo a dare meno fastidio possibile.