Benguela current
Al mattino presto, a Walvis Bay, il mare si perde nella nebbia. Sulla stessa latitudine, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, c’è Rio de Janeiro. Walvis Bay, è in Namibia. Il suo nome viene da una storpiatura imposta dai vari passaggi di sovranità: inglese, tedesca e poi afrikaans. Vuol dire Baia delle Balene, ma come il sole si alza, il mare emerge dal quadro e vedi un fiume scuro, immenso. E’ la corrente del Benguela, una striscia nera che nasce nelle profondità gelide dell’Antartide. Nel suo cammino verso nord la corrente si arricchisce di nutrienti raccogliendo residui di carcasse ed altri minerali da fondale oceanico ed è la corrente oceanica più densa e pesante del pianeta. Poi, al largo del Sud Africa e della Namibia, viene su, in superficie. E’ l’effetto dei venti costanti che spirando dalla costa verso il largo spazzano l’acqua di superficie verso est, verso il Brasile, e pompano in superficie l’acqua più densa e fredda come dal fondo di un pozzo. Allora la forte luce del sole interviene ed il fitoplancton fiorisce rigoglioso, attivando così la rete alimentare del braccio di mare più pescoso del pianeta. E ti spieghi perché, malgrado la latitudine tropicale e l’immenso altipiano desertico alle tue spalle, quel mattino in porto sei vestito come per andare a castagne nel sud delle Alpi. I catamarani che partono da Walvis Bay, tra immensi cargo e navi appoggio, superano i reticolati dei vasti allevamenti di ostriche e puntano verso le saline, dove vive una fitta colonia di otarie orsine del Capo, fenicotteri, ed è facile incontrare piccoli gruppi di delfini tursiope, ma anche il lagenorinco scuro, un piccolo cetaceo dalla livrea intensa, simile a quella di un’orca marina, che frequenta le acque australi, tra la Nuova Zelanda e l’Africa. E’ tra giugno e novembre che si verificano gli incontri con delle vere star: in quel periodo le megattere o balene franche australi, attratte dal plancton che nell’inverno australe fiorisce sempre più a nord, incrociano le acque antistanti Walvis Bay. Ma i veri protagonisti di quella costa ricca e difficile sono le otarie. Le otarie non mancano mai di curiosare festose, intorno alle canoe, ai bagnanti, ai catamarani. Attratte da un’aringa o soltanto da affettuosa curiosità.
Il sole che si alza dissipa le nebbie e subito si inizia a togliere gli strati: l’aria del deserto alle spalle si fa sentire, calda e piacevole, come una presenza benefica. Eppure quel tratto di costa non doveva essere un luogo molto apprezzato dai navigatori. A Swakopmund – bocca dello Swakop appunto, in Tedesco – sfocia l’unico fiume per centinaia di chilometri, un fiume dal corso stagionale e dalla portata limitata. Ed è lì, dal fiume Swakop verso nord che inizia la ‘Skeleton Coast’, la costa degli scheletri. Nebbie, rocce affioranti e correnti impetuose hanno sparpagliato la costa di relitti, enormi scheletri arrugginiti di navi incagliate, spesso semi-fagocitati dalle sabbie o dalle onde, come sorpresi dall’avvicendamento tra spiaggia e mare nei cicli dell’erosione. Doveva essere tragico, per un naufrago, scoprire che dietro quelle dune brumose e salmastre, verdeggianti di muschi e di licheni, non solo non c’era una sorgente d’acqua per centinaia di chilometri, ma iniziava un vasto deserto, il Namib. Forse, però, furono soltanto gli scheletri delle otarie e degli altri grandi mammiferi marini a dare il nome a quella costa desolata, quasi completamente disabitata. In giro, malgrado la strada sia in condizioni immacolate per essere in Africa, vedi solo fuoristrada e camper. Canoe, piccole barche a vela, mountain bike, è così che turisti, namibiani e vicini sudafricani affrontano uno dei rari gioielli dimenticati dall’evoluzione. Tra le dune vivono specie protette di licheni e all’interno, in un ambiente difficile come lo è il corso del fiume Swakop, vive la Welwitschia mirabilis, la specie vegetale più longeva del pianeta (2000 anni). Ma anche leopardi, ghepardi e milioni di gazzelle. Così tante gazzelle che poi ti meravigli di non vederle saltellare in giardino quando torni a casa in Europa.
Poi la corrente del Benguela doppia Cape Cross. Una lingua di sabbia e di rocce umide si protende nella corrente scura, fitta di sardine, spezzando onde grandi dalla risacca lenta: il respiro dell’Oceano. Una vecchia croce ricorda che i portoghesi scoprirono questi luoghi nel 1486. Per dimenticarsene subito. Non c’è niente a Cape Cross, tranne un albergo, gli uffici del Parco Nazionale, la croce eretta dai portoghesi per segnare il suolo più a sud mai calpestato da un europeo, ed una colonia.
Vivono lì, su quelle rocce, circa 100.000 otarie orsine, la colonia più grande del pianeta. Il rumore, e l’odore, sono assordanti. Non riesci a fuggire. Ti aggrappi alla plastica riciclata in faccia al vento e guardi la scena. Vedi migliaia di otarie che cantano, alcune litigano. A migliaia si lanciano in mare, a migliaia tornano a riva surfando sull’onda, altre proteggono i cuccioli dagli sciacalli, il cibo dai gabbiani. I maschi s’azzuffano.
E’ una scena forte, in una colonia di mammiferi stanziali che potrebbe essere paragonata soltanto ad una città umana. Non riesco ad immaginare così tanti mammiferi, tranne noi, abitare un lembo di terra così striminzito e produrre un tale frastuono, se non fosse per l’abbondanza: cibo e benessere per tutti. La corrente del Benguela, ricca di pesce e di sardine, soddisfa le aspettative della colonia di Cape Cross, ma come in un film distopico c’è un dazio che bisogna pagare per il benessere, che soprattutto i cuccioli devono pagare. Ogni anno chiudono il Parco e ne uccidono un certo numero (nel modo in cui ormai sanno tutti) per le loro pellicce da spedire in Turchia. Qualcuno ha deciso che stanno prosperando forse troppo, loro che si sono adattate a vivere in quelle condizioni. Ed è qui che il racconto s’incrina, sulla solita diatriba sugli equilibri tra pescato e predatori. Nel terzo millennio c’è ancora chi non ha capito che la relazione tra prede e predatori non si risolve con una semplice frazione matematica. E’ andata così anche con il riscaldamento globale. Per ora le otarie orsine prosperano su quella lingua di terra rifiutata dai portoghesi, ma non posso fare a meno di pensare ad un prelievo, un dazio agli dei in cambio della felicità, un sacrificio delle vergini. E’ una lunga storia, quella dei sacrifici e dei loro archetipi, una storia antica. Ma ancora più antica è la storia dell’Africa e della corrente del Benguela.
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