Dahab l’oro del Sinai

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Ad un certo punto l’ampia valle desertica si stringe e vedi una duna di sabbia dorata fra le rocce di basalto bollente. I segni degli snowboard li vedi sempre, anche se non ci sono in giro i ragazzi imbionditi dal sole che li hanno impressi sulla sabbia. La polizia se se ne accorge li fa sloggiare, teme che quell’attività bislacca possa interferire con l’esiguo traffico. Solo la forza del Khamsin, il vento di fine inverno, riesce a cancellare le tracce del sandboard. Ed è così che ti accoglie Dahab, che in Arabo vuol dire oro, con una piccola duna che ti ricorda i fuoripista e gli eli-ski, ma tutt’altro che bianca. Appunto. Poi dietro la curva c’è il posto di blocco. A sinistra vai a Nuweiba e al monastero di Santa Caterina, a destra una spianata si apre verso il mare. Se invece vai subito verso la laguna, in un attimo ti accorgi dei kite-surf. Li vedi danzare alti sull’orizzonte, con le montagne della costa saudita sullo sfondo. Li vedi danzare sul Golfo di Aqaba. Il vento a Dahab è una presenza costante. Lo senti fischiare mentre pranzi riparato da lastre di vetro, da stuoie, da incannucciate. Lo senti insinuarsi a spifferi tra i vetri mal sigillati e tra i vecchi legni di un pub. Senti la sua sferza mentre sei in acqua. Caldo e secco d’estate, fresco e appena più umido d’inverno. Statisticamente ti accompagna per trecento giorni all’anno. Eppure il mare a Dahab difficilmente lo vedi formato, devi uscire al largo ed anche lì l’onda non è mai impossibile. A Dahab, come su tutto quel lato del Sinai, la costa corre verso nord-nord-est. Le montagne che incombono sul reef costiero proteggono dal vento dominante, il vento del nord. Verso il largo, quindi a oriente, a una manciata di miglia nautiche vedi una immagine speculare: il profilo dei monti dell’Arabia Saudita. E così il vento s’incanala verso sud e quel braccio di mare che è il Golfo di Aqaba finisce con l’assomigliare, anche nell’umore, ad un grande lago glaciale. Invece il Mar Rosso, il più freddo dei mari tropicali è l’estrema propaggine dell’Oceano Indiano che proprio in quel golfo s’insinua in una profonda frattura: la faglia tra le placche continentali dell’Asia e dell’Africa.dahab laguna La laguna sembra un altro dono di Allah. Il reef disegna un enorme arco a chiudere  un ampio specchio d’acqua poco profondo e inaccessibile all’onda ma pervio al vento. E’ lì che molti appassionati di wake-board, wind e kite-surf trovano condizioni ideali per esercitarsi e per imparare. Onde piccole e vento forte. Dai quattro ai trenta nodi. Dahab è l’unico posto del Sinai oltre a Nuweiba, più a nord, dove tante strutture sanno di ruggine e salsedine. Un che di familiare. E’ il vento, certo. Ma non solo, Dahab non è nata ieri. Non è nata da una pianificazione a tavolino in un ufficio del ministero del turismo, Dahab esisteva prima del kite-surf, esisteva prima ancora di comparire su una mappa dell’Ammiragliato Britannico. Era un centro di pescatori e artigiani beduini. E per certi versi. Dahab, è ancora così. L’immagine di una galabya candida, l’abito beduino di tutti i giorni, che garrisce al vento tra mare e deserto non è una icona esotica, quel colpo d’occhio a Dahab è consuetudine: la norma sono le caprette che gironzolano nella zona a nord, più dei subacquei che indossano una bombola al fresco di una tenda beduina per fare pochi passi e gettarsi in una barriera corallina ancora intatta. OLYMPUS DIGITAL CAMERA A Dahab giurano che tutto è sotto controllo e che i pescatori non catturano specie protette e che non c’è un goccio di fognatura che finisce in mare. A Dahab nessuno è grande. L’albergo più grande non avrà più di cento stanze, e grandi in quel modo ce ne sono così pochi che non li vedi. Non c’è la cura maniacale che vedi a Sharm, dove risiedeva Mubarak. Dahab è un posto da hippy. Piante psicotrope e abbigliamento da ashram fanno parte della ‘situazione dahab’. Un posto ricco di energia. A differenza delle nuove aree sorte nel sud del Mar Rosso egiziano è un centro antico, antichissimo. Nabateo, poi romano, ora beduino prima che egiziano. Sul lungomare  le rovine del porto, poche ma curate, recintate e con dei cartelli multilingue che raccontano la loro storia. E questo vento, questo vento costante. Da guardiano del faro senza l’onda che divora. Un mare che nutre. Cavalli e cammelli sulla passeggiata.   Alle spalle un deserto tutto da scoprire, e a portata di mano, intriga i pomeriggi e il finire delle giornate passate sotto la sferza del sale, del sole e del vento. Relax nelle oasi all’ombra delle palme, ascoltando un ruscello che irrompe dalle rocce aride. Dahab è stato il primo luogo che visitai nel Mar Rosso in cerca di lavoro. Tutti mi avevano detto che era il posto adatto per chi veniva da luoghi selvaggi – e che in sostanza fuggiva da certi meccanismi. Mi ricordo che mi colpì il vento. Mi ricordo le imposte arrugginite che cigolavano, come in un film di Sergio Leone. C’era un tizio seduto in posizione del loto sul counter del diving center, il centro subacqueo. “Mi scusi, sto cercando lavoro, posso parlare col manager?” dissi. “Speaking.” Ci stai parlando, disse. E alzò le palpebre sul mare blu e le montagne rosse, alte sull’orizzonte.

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