Uomini, abissi e ricette segrete

In tutto il Golfo di Aqaba, da Sharm fino a Taba, non devi mai allontanarti troppo dalla riva per trovare acque profonde. Le pareti rocciose da terra scendono a precipizio verso l’abisso. Il Golfo di Aqaba stesso, come il Mar Rosso è infatti un segmento della Great Rift Valley, la Grande Fossa Tettonica,  una delle più lunghe e drammatiche fratture del pianeta. Tutta la costa orientale del Sinai è montuosa e le spiagge naturali sono rari gioielli tra mare e deserto. Ma se la natura è stata avara in superficie non lo è stata sott’acqua. Il reef costiero ha sviluppato innumerevoli formazioni coralline, alcune delle quali dei veri e propri monumenti sottomarini. Il Canyon e il Blue Hole, le due meraviglie subacquee più note e di facile accesso su tutta la costa, si trovano a Dahab. Queste caratteristiche unite ad un mare quasi sempre calmo e limpido hanno favorito proprio a Dahab lo sviluppo di quella branca della subacquea che vuole affrontare percorsi e profondità impegnative, approntando procedure e attrezzature sempre più complesse: la subacquea tecnica.

Non ci stupisce quindi che un ennesimo record mondiale di profondità venga battuto propri qui a Dahab, dove non solo la conformazione dei fondali e le condizioni del mare sono favorevoli, ma la logistica e il know-how per affrontare certe imprese sono di casa. Andare a trecento metri e passa sott’acqua portandosi dietro le necessarie bombole è un’impresa che come pianificazione rasenta i primi viaggi spaziali. Yuri Gagarin, nel 1961, per andare e tornare dallo spazio compiendo un’orbita completa intorno al pianeta impiegò 1h e 48 minuti. Ahmed Gabr, un istruttore di subacquea tecnica egiziano detentore del primato mondiale, per andare e tornare da 332 metri di profondità ci ha messo quasi 14 ore, assistito da uno staff di oltre venti esperti. Questo ci dà un pò l’idea di quanto siano tangibilmente lontane per i limiti fisiologici umani certe profondità, assolutamente inarrivabili per l’uomo comune.

A -332 metri la pressione è 33 volte maggiore che in superficie, cioè di 33kg per centimetro quadrato. Una forza spaventosa il cui effetto diretto sul corpo umano, però, preoccupa più gli apneisti che i subacquei che scendono con autorespiratori. Prendendo aria in superficie, a una pressione cioè normobarica, gli apneisti sperimentano a profondità altrettanto vertiginose una drastica riduzione del volume dei polmoni, con complesse ripercussioni fisiologiche. I subacquei invece respirano aria o miscele di gas a pressione ambiente, cioè la pressione relativa alla profondità in cui si trovano, mantenendo così i volumi polmonari pressoché identici a quelli della respirazione in superficie. E, differenza non da poco, respirano. Ma è qui che si aprono le porte di diversi inferni, uno per ogni gas respirato.

L’aria, per esempio, a certe profondità diventa pericolosa se non mortale. Già verso i trenta metri l’azoto contenuto nell’aria comincia a far sentire i suoi effetti narcotici. Inizia con un leggero ‘effetto martini’ – dal nome del famoso aperitivo – ma scendendo ancora, i tempi di reazione si dilatano pericolosamente e la capacità di giudizio diventa quella di un’ameba, fino a raggiungere un obnubilamento paragonabile a una anestesia totale. Ma prima che questo accada c’è l’ossigeno a intervenire. Oltre i 60 metri l’ossigeno alle percentuali atmosferiche, cioè il 21%, diventa tossico per il sistema nervoso centrale. Tra i vari sintomi dell’intossicazione le convulsioni sono ciò che un essere umano immerso a grandi profondità non può permettersi. Così, in questo salvataggio di capra e cavoli per diminuire le percentuali d’azoto e quelle dell’ossigeno c’è bisogno di far intervenire un terzo elemento: l’elio, il gas ideale per le grandi profondità. Ma anche l’elio ha un limite. Oltre una certa pressione anche l’elio dà luogo a sintomi neurologici, come tremori incontrollati, nausea, vertigini. Sintomi ben meno gravi dell’intossicazione da ossigeno, meno penalizzanti della narcosi d’azoto, ma pur sempre temibili. Soprattutto quando la sopravvivenza è affidata alla precisione chirurgica delle scelte e della manualità del subacqueo. Tanto che Ahmed Gabr decide di tornare su dopo aver afferrato il cartellino con il timbro del giudice posto a -335 metri,  e non quello a -350: i tremori alle mani e alle braccia erano tali che Ahmed pensò bene di intascare un record sicuro e non rischiare oltre. Gli verranno omologati 325, 35 metri, tendendo conto di una possibile flessione della cima di discesa.

Certo, senza una forma fisica e mentale perfette non è pensabile affrontare imprese del genere. E Ahmed Gabr la forma fisica e mentale, da membro delle Forze speciali Egiziane,  ce le ha buone, senza parlare dell’allenamento: innumerevoli immersioni sotto i 140 metri. Ma se nelle altre attività, come l’apnea per esempio, questi requisiti da soli permettono di conquistare un record, nella subacquea tecnica l’elemento decisivo è la scelta delle miscele di gas e la loro pianificazione. In questa fase interviene sempre un personaggio mitico, il ‘gas blender’. Mescolando le giuste dosi d’ingredienti e stabilendo in base alla tolleranza del paziente la posologia adatta, come un vecchio farmacista il ‘blender’ è colui che prepara la ricetta. Anzi le ricette, perché il ‘paziente’ si somministrerà le varie miscele di gas secondo profondità.

Si chiama Sam Helmy, formatore di istruttori TDI (Technical Diving International) ed è anche lui egiziano, l’uomo che sta dietro la ricetta miracolosa. Varie miscele da suddividere in ben 92 bombole come pillole. Perché è vero che a quella profondità si consuma 33 volte più che in superficie, ma è anche vero che per tornare su sono servite quasi 14 ore. Tutte impiegate per consentire all’elio e all’azoto, i gas inerti respirati e assorbiti dai tessuti, di uscire dall’organismo senza fare danni. E’ sempre la risalita il momento più delicato dell’immersione, quando cioè i gas assorbiti tornano indietro e bisogna farli tornare da dove sono venuti: i polmoni. Se non si sta attenti rischiano di andarsene in giro sotto forma di bollicine causando quella patologia nota come ‘malattia da decompressone’ e che la stampa non specializzata insiste a chiamare embolia. E’ una patologia che sta facendo segnare il passo anche agli apneisti che si avventurano a profondità sempre più stratosferiche.

L’apneista austriaco Herbert Nitsch nel 2012 ha raggiunto la pazzesca quota di -253 metri, ma evidentemente è bastato il residuo di quel poco azoto respirato in superficie, ma assorbito in profondità e rilasciato velocemente durante la risalita, a scatenare in lui la patologia. Prima di Nitsch Carlos Coste, nel 2006 durante un suo tentativo di record a Sharm el Sheikh aveva sviluppato gravi sintomi. Azoto o elio, i gas inerti stabiliscono un limite fisiologico che impone soprattutto ai subacquei una pianificazione impeccabile dei tempi di fondo e delle tappe di risalita.

Ed è durante questa fase, la risalita, che intervengono gli angeli custodi. Si tratta di altri subacquei tecnici con grande esperienza di immersioni profonde che a tappe fisse fanno da check-point per l’atleta mentre torna in superficie, prendendo in consegna bombole vuote e fornendo quelle piene. Sperando che sia sempre la miscela giusta per la profondità. Nel record di Ahmed Gabr, gli angeli custodi in acqua erano ben 14, ed il primo l’ha incontrato a -110 metri, ognuno a una tappa precisa ognuno con un compito preciso. Un bell’ingranaggio da far funzionare, tra l’altro molto bello anche da vedere tanto che a febbraio del 2015 uscirà un documentario sull’impresa di Dahab. Un’impresa storica. E speriamo anche che pubblichino i dettagli della ricetta, perché al di là dell’eroica missione portata avanti da un atleta e da un team fuori dal comune per intelligenza, nervi saldi e bravura, il lato più affascinante dell’impresa resta l’aspetto scientifico. Il ‘come’ ci interessa almeno quanto il ‘chi’ e ‘quando’, anche visto che i computer subacquei al 19 settembre 2014 – il ‘quando’ del record – non erano mai stati testati oltre i 300 metri.

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