Corsa alla terra fertile

land grabbing

Si parla di land grabbing (accaparramento delle terre) quando una larga porzione di terra considerata inutilizzata è venduta o affittata, a prezzi modesti, a società straniere senza il consenso delle comunità che vi abitano.

I nuovi colonizzatori sono multinazionali o fondi comuni di investimento i cui azionisti non hanno obblighi di rispetto dei diritti umani, come impone la convenzione di Ginevra sottoscritta, invece, dagli stati. La loro unica preoccupazione è il profitto.

Tutto ha inizio nel 2006 quando il prezzo degli alimenti agricoli primari inizia la sua ascesa. Quasi contemporaneamente vengono registrati da ONG internazionali i primi casi di land grabbing. Nell’arco di 12 mesi, si sottoscrivono 416 contratti in 66 paesi del mondo per un totale di 87 milioni di ettari di superficie coltivabile.

Dal 2008, quando ha inizio la crisi finanziaria, il fenomeno subisce una rapida accelerazione che, in pochi anni, mette in ginocchio migliaia di comunità agricole in tutto il mondo.

Tra i soggetti maggiormente impegnati nel land grabbing ci sono i fondi pensione. È un dato curioso perché è opinione comune che i fondi, lavorando per i lavoratori, siano guidati da un sentimento di responsabilità pubblica ma, in realtà, le loro azioni sono volte esclusivamente alla crescita del risparmio previdenziale di chi rappresentano e non dalle loro convinzioni. Gli enti privati che gestiscono la più grande quantità di denaro al mondo, quindi, vedono nell’acquisizione e utilizzo di terre, un modello economico con un grande rendimento. I prezzi delle terre continueranno ad aumentare e, nell’attesa di riscuotere il ricavo di future vendite, traggono beneficio dalla vendita dei prodotti coltivati, non importa se a scopo alimentare o energetico.

Spesso, per evitare le tasse patrimoniali, le terre sono solo prese in locazione ma per un periodo lunghissimo che va dai 50 ai 99 anni. Questi contratti, oltre allo sfruttamento della terra, prevedono il pieno ed esclusivo utilizzo di tutte le risorse sottostanti e sovrastanti. Così accade che, se le popolazioni locali impiegano più tempo ad abbandonare quelle che fino al giorno prima erano le loro terre, tutto ciò che si trova sulla terra affittata, comprese le case e il bestiame, finisce nelle mani delle aziende straniere che decideranno, in piena libertà, che farne.

Se diamo uno sguardo al sottosuolo, poi, la situazione è ancora più preoccupante. Le risorse idriche, ora offerte gratuitamente dai paesi africani come accessorio alla terra, diventeranno di cruciale importanza in un futuro neanche troppo lontano. La questione è già chiarissima ai soggetti della finanza internazionale e lo dimostra il fatto che proprio nei territori dove scorre il fiume Nilo, ad esempio, sono state portate a compimento il maggior numero di acquisizioni di tutto il territorio africano.

Il Nilo un tempo forniva acqua dolce al Mediterraneo ma oggi è invaso dall’acqua salata proveniente dal mare a causa degli ingenti prelievi per l’irrigazione che ne hanno ridotto il flusso. L’Etiopia è fonte della quasi totalità dell’acqua del Nilo ma, nella regione di Gambela, al confine col Sud Sudan, due aziende stanno già costruendo grandi canali di irrigazione che aumenteranno ancora di più il prelievo di acqua dolce.

Senza acqua dolce non si può coltivare e i contadini sono obbligati a migrare per sopravvivere. Se aggiungiamo a questi la marea umana cacciata dalle terre date in affitto, è facile immaginare quali tensioni sociali avvengono e avverranno in futuro in questi paesi. A tenere sotto controllo le potenziali rivolte, però, ci pensano gli eserciti del vecchio mondo sempre più massicciamente presenti in Africa. Ufficialmente impiegati nell’addestramento dei giovani eserciti africani, hanno il compito di contenere le nascenti rivolte, per garantire agli investitori stranieri una produzione agricola senza intoppi e ricordare agli amministratori locali la loro condizione di dipendenza dai paesi ricchi per non ritrovarsi un paese dilaniato dalla guerra civile.

Lo scenario che avremo di fronte nei prossimi anni è a dir poco catastrofico. La domanda alimentare crescerà, contemporaneamente alla crescita delle popolazioni locali. Con il prezzo dei prodotti in continuo aumento, però, dobbiamo aspettarci che una fetta sempre maggiore della popolazione mondiale sarà destinata a soffrire per la mancanza di acqua e cibo.

Alcuni sostengono che l’investimento massiccio di capitali nei paesi in via di sviluppo acceleri quel processo di sviluppo tecnologico tanto sperato ma nessuna affermazione è più falsa e ne sono prova la foresta amazzonica, dilaniata per l’allevamento dei bovini, e il Borneo, raso al suolo per dare spazio alle piantagioni di palma da olio.

Anche un’istituzione come la FAO ammette che non ci sia più motivo di credere che, un sistema considerato insostenibile già nel vecchio mondo, possa essere di qualche utilità nei paesi in via di sviluppo. Al contrario, recenti studi economici svolti in Tanzania hanno dimostrato che, se le terre fossero coltivate da piccoli contadini sarebbe possibile nutrire, solo in quel paese, altre tre milioni di persone.

La distruzione delle nostre risorse naturali per contribuire al profitto di poche organizzazioni internazionali deve essere fermata. Per colpire realtà mosse solo da leggi di mercato è dentro il mercato che bisogna agire.

In ambito internazionale è necessario sostenere quelle proposte rivolte all’ONU per una maggior chiarezza nella stipula dei contratti di compravendita di terra, controllando periodicamente gli effetti delle colture sull’ambiente naturale e sulle comunità locali e imponendo un reinvestimento degli utili in progetti di educazione, formazione o nella realizzazione di infrastrutture.

Ogni stato dovrebbe sentirsi obbligato a sostenere quelle, tra le proprie ONG, che portano avanti progetti di agricoltura sostenibile in cui sono impiegati contadini locali e per cui, non essendo più necessaria un’impostazione estensiva, possano essere recuperate quelle forme varietali con un limitato bisogno idrico.

Infine noi, come cittadini consapevoli, dobbiamo al più presto modificare le nostre abitudini alimentari. Secondo uno studio del WWF, in Italia, il consumo di cibo è responsabile del 90% del consumo totale di acqua e il dato è molto preoccupante perché la dieta mediterranea è tra quelle che comporta un impatto idrico minore se confrontata con le diete a base di carne.

Senza un’azione sinergica sarà molto difficile arginare il fenomeno e la mancanza di cibo, insieme al riscaldamento globale provocheranno disperate migrazioni per fuggire da territori diventati sterili.

Ciò di cui non siamo a corto, però, è l’intelligenza. Benché, in passato siamo stati in grado di utilizzarla nelle forme più meschine, abbiamo tutte le capacità e le risorse per costruire un futuro diverso; anche perché, quello cui ci stiamo rivolgendo in questo momento, più che un futuro possibile, ha tutte le caratteristiche di un suicidio di massa.

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