Sulle orme di Salgado: i Korowai della Papua Occidentale
In un pianeta bistrattato e martoriato come il nostro, le tribù indigene che abitano i recessi più nascosti del mondo che se ne prendono cura rispettandone i principi e l’ecosistema, sviluppando capacità di adattamento a climi e geografie al limite della sopravvivenza anzichè piegarli alle proprie esigenze, suscitano grande interesse. E non è un caso se queste culture incontaminate sono quelle che contribuiscono meno ai cambiamenti climatici ma che ne subiscono di più gli effetti.
Compiendo una sorta di “viaggio nel viaggio” ispirato dal progetto fotografico Genesis di Sebastiaõ Salgado – il cui scopo è immortalare luoghi e stili di vita di tribù locali che hanno avuto contatti limitati con il mondo esterno -ripercorreremo queste culture e questi popoli così come ritratti dal fotografo brasiliano, alla scoperta delle società remote di cui nessuno si ricorda mai di parlare.
Calcando le sezioni in cui Salgado ha articolato il suo volume cominceremo il nostro viaggio nella lontana Indonesia, terra che ospita circa 312 tribù, molte delle quali isolate: tra queste, partiamo con i Korowai.
I Korowai sono insediati nel cuore delle foreste pluviali del sudest della Papua Occidentale. Sono circa 3mila individui e sono perfettamente integrati nel loro ambiente: sono un popolo di cacciatori-raccoglitori ed orticoltori che praticano colture itineranti, muovendosi verso un nuovo luogo quando il suolo è esausto per consentire la riforestazione e il recupero del terreno; inoltre sono anche eccellenti pescatori.
Immaginate questi uomini digiuni di civilizzazione, praticamente nudi, intenti nelle loro semplici attività quotidiane con il solo ausilio di utensili di pietra (da cui l’epiteto “Stone Korowai”): grazie a questi oggetti gli indigeni riescono a fare e ad ottenere tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere, soprattutto il taglio degli alberi per ricavare il pane, il “sago”. Per nutrirsi utilizzano tutte le risorse che fornisce loro la foresta, ossia verdura, frutti tipici e banane, selvaggina. Mangiano un pò tutti gli animali, compresi serpenti, iguane e pipistrelli. L’unico animale di cui non si cibano è quello totem che ogni clan possiede e che è considerato tabù. Nelle loro capanne allevano maialini, per offrirli come regali in occasioni matrimoniali o per riappacificarsi dopo eventuali liti che coinvolgono le famiglie.
Ciò che rende i Korowai “mitici” nell’immaginario collettivo sono i loro tre elementi caratteristici: l’isolamento dal resto del mondo, la loro abitudine a vivere in case sull’albero e il loro ricorso alla pratica del cannibalismo, che li rende forse le ultime persone al mondo presso cui tale usanza è ancora diffusa.
Siamo nel marzo 1974. Un gruppo di scienziati, nel corso di un’esplorazione guidata da un missionario olandese, si addentra per la prima volta in queste remote regioni, scoprendo non solo una tribù, ma anche che questa aveva vissuto per millenni ignorando che esistessero altri popoli sulla terra. Quello fu il primo contatto documentato dei Korowai con il mondo esterno: nemmeno la polizia indonesiana si era mai avventurata in quelle zone, un’area di 600 Kmq caratterizzata da un clima piuttosto ostile, pianure acquitrinose e dalla presenza di due fiumi che provocano frequenti e disastrose inondazioni, contesto in cui questi individui sono riusciti ad adattarsi e a trovare i mezzi per il loro sostentamento rispettando l’ecosistema della foresta.
Se desta stupore questo isolamento primordiale in un mondo in cui tutto sembra essere stato scoperto, guardare le immagini delle case sugli alberi dei Korowai lascia senza fiato: veri e propri capolavori di architettura dentro la natura, strutture completamente costruite in legno sospese anche fino a 45 metri di altezza. Un misto di poesia, vertigine e panorama mozzafiato. Immaginate cosa voglia dire svegliarsi ogni mattina e vedere la foresta dall’alto…
Oltre che beneficio per la vista, queste costruzioni hanno anche uno scopo pratico: dato che la tribù è organizzata in clan, i Korowai hanno sviluppato tale peculiare tipologia di abitazione a causa dei possibili scontri tra famiglie rivali e per proteggersi dagli attacchi degli animali. Le case possono essere costruite sopra un singolo albero o possono avere come base più alberi ravvicinati, e sono costruite a gruppi di due o tre in una radura, accogliendo famiglie molto unite e numerose, anche con più di 10 componenti (rispettando sempre la rigorosa separazione tra uomini e donne), animali ed effetti personali per lo più decorativi, quali i denti di maiale.
Nel corso degli ultimi decenni alcuni Korowai si sono traferiti in insediamenti costruiti da missionari olandesi e sono venuti a contatto con i primi turisti che si sono avventurati nelle loro terre. La maggior parte però vive ancora nel cuore della foresta pluviale, lontano dal mondo moderno e nel rispetto delle proprie usanze. Per cui, in base alle credenze tradizionali, le abitazioni della tribù vengono costruite sugli alberi anche per proteggersi dagli spiriti maligni.
Dato il loro isolamento dal mondo, le poche notizie di cui siamo in possesso sui Korowai provengono principalmente dalla sortita di una troupe televisiva australiana guidata dal giornalista Paul Raffaele, che nel 2006 è riuscita ad avvicinarli e a documentarne le attività quotidiane. Conquistatosi la loro fiducia, Raffaele ha approfondito il tema-tabù che incuriosisce sopra ogni altro aspetto il pubblico: il cannibalismo. “Consumano la carne umana avvolta in foglie di banano. La loro parte preferita è il cervello, ma mangiano tutto. Tranne i capelli, le unghie e il pene. In qualche modo, la tribù tratta la carne umana come noi facciamo con la carne di maiale. I bambini che hanno meno di 13 anni sono esonerati da tale pratica in quanto, essendo ancora vulnerabili, potrebbero essere contagiati dagli spiriti maligni.”
Il giornalista fornisce una spiegazione a tale usanza ancestrale, che non è né pratica indistinta né gratuita.
Infatti i Korowai, non facendo uso di farmaci per curare le malattie ma solo di erbe, hanno un alto tasso di mortalità specialmente a causa di malaria, tubercolosi, elefantiasi e anemia. “Per loro, se qualcuno cade da una casa sull’albero o viene ucciso in battaglia, allora la causa della loro morte è evidente. Ma non capiscono microbi e germi, così non avendo conoscenze mediche quando qualcuno muore ‘misteriosamente’ (cioè di malattia) credono che sia sotto l’attacco di un uomo malvagio, il ‘khakhua’, un demone che assume la forma umana, possiede il corpo di un uomo (mai di una donna) e lo ‘divora’ dall’interno. Secondo questa logica, quest’uomo sta commettendo un grave crimine, e perciò va punito. In punto di morte, la persona malata convinta di essere sotto l’attacco dello stregone sussurra a suo fratello o al suo migliore amico il nome del presunto khakhua che lo sta uccidendo, spesso indicando il membro di un clan avversario ma anche fratelli o sorelle accusati di essere stregoni. Individuato il colpevole, i membri della famiglia del morto lo rapiscono e lo uccidono, divorandone la carne come egli ha mangiato la persona che ha ucciso, e ne conservano il teschio. Per tutta la notte dopo l’uccisione i familiari della vittima sbattono le ossa del sospetto stregone sui tronchi degli alberi, per allontanare dalla famiglia stessa gli altri possibili khakhua. L’espiazione del peccato del khakhua è quindi una parte integrante della giustizia tribale: è il loro ‘sistema giudiziario’, basato sulla vendetta”, conclude Raffaele, nonché la spiegazione al loro cannibalismo, strettamente legato alla cultura animista che molte tribù papuase ancora perpetrano.
Gli antropologi sostengono che l’antropofagia sia una pratica ormai inesistente tra i Korowai; tuttavia nelle regioni più interne forse è ancora pratica comune, sebbene meno diffusa…