Sulle orme di Salgado: gli Yali della Papua Occidentale
Gli indigeni papuasi, sebbene abbiano aspetti differenti e parlino lingue diverse tra loro, hanno stili di vita simili: gli Yali al pari dei Korowai vivono isolati, sono cacciatori-raccoglitori, praticano colture itineranti e sono stati scoperti di recente.
In questo viaggio vi portiamo nell’Irian Jaya, la nuova provincia dell’Indonesia occidentale che fa parte della Nuova Guinea. L’estrema parte orientale della Valle di Baliem intorno alla catena montuosa Jayawijaya è dove vivono le tribù degli Yali, costituite da circa 30mila individui.
Sono un popolo di allevatori di suini – la loro più importante merce di scambio – e di coltivatori di patate dolci. Grandi consumatori di verdure, sono eccellenti ecologisti e riconoscono almeno 49 diverse varietà di patate dolci e 13 di banane: probabilmente è per queste ragioni, oltre alla loro perfetta integrazione nella natura in un territorio così aspro, che sono anche detti i signori della terra.
Il profondo legame di questi popoli con l’ambiente, che Salgado ha voluto raffigurare, è evidente: lo stile di vita semplice e rispettoso della natura risulta anche nelle architetture sostenibili degli Yali, ossia capanne di legno rotonde, con tetti coperti di foglie di pandanus. Sono le abitazioni collettive degli uomini dette honai, mentre le donne vivono da sole nelle loro case.
Per i popoli indigeni prendere più del necessario o deturpare la terra non è solo controproducente, ma anche irresponsabile verso i figli non ancora nati. Non sorprende che l’80% delle aree mondiali con maggiore ricchezza biologica sia costituito dai territori delle comunità tribali, che hanno trovato modi ingegnosi per rispondere ai propri bisogni e mantenere l’equilibrio ecologico del loro habitat.
Sopravvivere senza distruggere l’ambiente dunque: ciò vale nell’utilizzo delle piante non solo come alimentazione ma anche come medicinali. Gli sciamani Yali credono che alcune piante che crescono negli altipiani centrali siano abbastanza potenti da allontanare i fantasmi dai villaggi, i topi dai campi, garantire l’arrivo della pioggia o il successo della battuta di caccia. “Uno Yali anziano mi ha insegnato tutto sulle piante magiche di questo mondo”, afferma il dottor William Milliken, etno-botanico dei Royal Botanic Gardens a Kew, Londra. “Le piante erano così segrete e potenti che talvolta sussurrava solamente i loro nomi per evitare di pronunciarli ad alta voce.”
Distese sterminate di foreste vergini circondate da montagne impervie che raggiungono i 4.500 metri: gli Yali si inseriscono in questa cornice lussureggiante ed estrema, dimorando in villaggi tra i 700 e i 2mila metri di altitudine. Non stupisce che questo contesto abbia garantito loro l’isolamento geografico, e che a causa dell’irraggiungibilità del luogo – accessibile solo via trekking e/o aereo; lo stesso Salgado vi è pervenuto dopo giorni di cammino in compagnia del figlio Juliano – i primi contatti degli Yali con il mondo esterno siano avvenuti solo a partire degli anni ’70 ad opera di missionari cristiani. Pare che proprio sotto influsso di questi ultimi da allora la tribù abbia smesso ufficialmente di praticare il cannibalismo, ma l’ancestrale usanza forse permane tutt’ora nelle zone più remote ed inesplorate.
In un numero del 2006 il mensile Geo ha analizzato il ricorso a questa pratica da parte degli Yali, affermando che aveva la sacralità di un rito magico: cibandosi di cervello, cuore e mano destra del loro nemico ucciso ne acquisivano la forza e il potere. Tuttavia non si nutrivano di tutti i loro simili, ma solo di guerrieri di tribù geograficamente distanti dalla loro, perchè “non si può mangiare un uomo di cui si conosce la faccia…”
Un uomo di piccola statura con un’arma in mano che scruta l’orizzonte abbarbicato sul tronco di un albero incurvato, spoglio tanto quanto lui: è il ritratto significativo di un membro della tribù. Ufficialmente definiti pigmei a causa dei loro 150 cm di altezza, gli Yali nonostante la statura pare siano molto temuti e rispettati dai propri nemici. Portano sempre con loro arco e frecce e sono capaci di macinare chilometri per cacciare e procacciarsi il cibo.
Oltre all’altezza, ciò che li identifica a prima vista è l’inconfondibile e curioso abito tradizionale: una specie di tunica formata da numerosi cerchi di rattan, lunghe canne spesse circa mezzo centimetro avvolte attorno a busto e vita; all’altezza dei fianchi i cerchi si allargano e formano una specie di rustico gonnellino, la cui parte anteriore è sorretta dal koteka. Il koteka è un lungo e sottile astuccio penico fatto di zucca bislunga essiccata. Questa sorta di corazza appoggiata sui fianchi costituisce un’elastica protezione dagli urti e in passato dalle frecce dei nemici, e il koteka è indossato per motivi igienici. Questi singolari vestimenti vengono tradizionalmente usati anche per distinguere l’identità tribale: rispetto a quelli delle altre tribù della zona, gli Yali portano i koteka più lunghi.
Le donne indossano solamente corti gonnellini d’erba, formati da quattro strati: il primo viene messo a quattro anni, e ogni quattro ne viene aggiunto un altro fino al raggiungiumento del 16esimo anno d’età, quando la donna si considera matura e quindi in grado di sposarsi.
In una evocativa foto di Salgado alcune donne di spalle mostrano le loro grandi borse di fibre di orchidea fatte a mano, chiamate noken, che portano sempre con loro e che costituiscono parte integrante del loro vestiario. Indossate dalla testa quasi fossero dei veli, vuote o piene, coprono la schiena e le natiche e possono arrivare fino alle ginocchia.
Per quanto concerne gli ornamenti, sia gli uomini sia le donne Yali utilizzano principalmente i denti di maiale: i primi li inseriscono nel naso, le seconde invece ne formano delle collane. Genuinità e praticità non esenti da qualche piccolo vezzo…
complimenti per il suo lavoro e per la sua passione.
In verità l’articolo lo ha scritto Claudia Galati che per un errore non appariva, adesso abbiamo ripristinato la sua firma. Apprezzerà senz’altro il suo commento.. grazie