Il diritto alla terra: quando i cittadini si oppongono allo Stato
Burns, Oregon. In un conflitto a fuoco tra gli agenti federali degli Usa e un manipolo di uomini armati asserragliati in una riserva naturale, un uomo rimane ucciso, un altro ferito e almeno otto persone arrestate con l’accusa di cospirazione. Non è la trama di un film, né una storia d’altri tempi: il fatto è accaduto pochi giorni fa, il 27 gennaio 2016. Quali sono le ragioni che stanno all’origine di questo fatto di cronaca?
Tutto ha inizio il 2 gennaio scorso quando un gruppo armato di destra ha occupato gli uffici all’interno del Malheur National Wildlife Refuge in Oregon. Un segno di protesta contro il governo che nega che alcuni terreni federali siano dati agli allevatori di bestiame e ai taglialegna locali, e contro la detenzione di Dwight e Steven Hammond, due allevatori di Harney County condannati a cinque anni di carcere per aver appiccato incendi dolosi nel 2001 e nel 2006 su terreni di proprietà federale su cui pagavano il diritto di far pascolare gli animali.
Arrestati, i due hanno fatto ricorso alla Corte Suprema sostenendo l’incostituzionalità della sentenza, venendo poi rilasciati. Tuttavia il 2 gennaio scorso il giudice federale ha ordinato nuovamente la loro incarcerazione, fatto che ha scatenato la protesta degli allevatori provenienti da varie zone del Paese e sfociata nell’occupazione della riserva naturale, i cui componenti si sono detti disposti a “restare per tutto il tempo necessario fino a quando la gente della contea di Harney non potrà usare la terra in totale libertà” e anche ad uccidere o ad essere uccisi se le loro richieste non saranno prese in considerazione da Washington. Il gruppo, oltre a chiedere il rilascio degli allevatori incarcerati, ha reclamato la privatizzazione dei terreni demaniali, l’abolizione dei permessi federali per il pascolo, l’amministrazione a livello locale e la gestione della riserva da parte della contea di Harney al posto delle autorità federali. Gli Hammond hanno comunque preso le distanze dall’azione dei dimostranti.
Composta da una ventina di miliziani, la formazione nazionalista denominata Citizens for Constitutional Freedom è capitanata da Ammon Bundy, che insieme a suo fratello Ryan è salito agli onori della cronaca in quanto figlio di Cliven Bundy, allevatore dello Stato del Nevada che ha vissuto una situazione simile con le autorità federali nel 2014 sui diritti di pascolo del bestiame. L’Agenzia preposta, il Bureau of Land Management, aveva presentato all’uomo un conto di 1,2 milioni di dollari per aver fatto pascolare le sue mucche per 20 anni su terreni federali senza pagare le tasse dovute. Bundy si è difeso affermando di aver smesso di pagarle dopo che la BLM ha imposto restrizioni sui terreni federali concessi per il pascolo per proteggere la tartaruga del deserto in via di estinzione. Nel suo ranch sono accorse decine di estremisti di destra da tutto il Paese in suo sostegno, e temendo un bagno di sangue i funzionari hanno interrotto la requisizione del bestiame e si sono ritirati senza più tornare.
Il governo statunitense controlla 640 milioni di acri di terreni, circa un terzo di tutto il territorio del Paese, e possiede oltre 560 aree selvatiche protette, create per favorire uccelli, pesci, animali vari e i loro habitat. Il parco nazionale di Malheur è una di queste, creata dal presidente Theodore Roosevelt nel 1908 per proteggere gli uccelli acquatici che venivano sterminati a causa del commercio di piume. Secondo la Audubon Society di Portland, questo parco di 760mila km2 è uno degli habitat naturali più importanti di tutta la rotta pacifica degli uccelli. La maggior parte del territorio controllato dal governo federale si trova nell’Ovest: l’84,5% del territorio del Nevada e il 53% dell’Oregon. In Idaho, Arizona, New Mexico e California è di poco inferiore mentre nello Utah è del 57,4%. I terreni ufficialmente definiti come area selvatica o parco nazionale godono di una protezione maggiore, perciò vi sovrintendono specifiche agenzie federali, in particolare il National Park Service, il Bureau of Land Managent e il Fish and Wildlife Service. Buona parte di questa terra viene concessa a dei fattori che devono pagare l’affitto e chiedere il permesso per usufruirne in periodi prestabiliti per il pascolo, il taglio della legna, la caccia, la pesca e lo sfruttamento minerario.
Da decenni negli Stati Uniti occidentali scoppiano conflitti relativi a terre di proprietà del governo centrale. Washington cerca di bilanciare la protezione ambientale con una politica che permetta alcuni tipi di sfruttamento del terreno, ma allevatori, proprietari terrieri privati e autorità locali chiedono di avere un maggior controllo sulle terre contro il divieto di pascolo e caccia da parte del governo. I motivi che si celano dietro questa occupazione “per il diritto a coltivare la propria terra” sono variegati: l’esigenza reale e diffusa da più di un secolo dei diritti alla terra dei cittadini, che chiedono che la gestione dei terreni federali venga affidata ai singoli stati; il propugnato “impoverimento” degli allevatori a causa delle tasse imposte dal governo sui terreni di sua proprietà. Inoltre, è innegabile la matrice della destra radicale antigovernativa del gruppo armato dei Bundy, che molti hanno tacciato di terrorismo. Lo sceriffo di Harney, David Ward, ha affermato: “Questi uomini sono arrivati nella nostra contea proclamando di essere una milizia a sostegno dei ranchers locali. In realtà questa gente ha altri motivi, in particolare quello di rovesciare il governo federale e della contea, nella speranza di accendere un movimento di protesta in tutti gli Stati Uniti”.
Lo stesso Ammond Bundy, nelle sue dichiarazioni alla stampa, ha fatto di tutto per evidenziare che quella non era una semplice occupazione per allargare le aree di pascolo del bestiame.
Alcuni nativi della tribù Paiute hanno ribadito la loro scelta non violenta e hanno accusato gli occupanti del Parco di profanare terre per loro sacre, preoccupazione condivisa dai funzionari governativi per i possibili danni alle risorse culturali, manufatti sacri, documenti sensibili e habitat della fauna selvatica locale.
Anche la popolazione locale si è schierata nettamente contro i dimostranti antigovernativi, che molti considerano dei fanatici che hanno portato confusione nella comunità e rischi per la sicurezza dei dipendenti e degli abitanti. Ma è anche vero che i lavoratori statali costituiscono oltre il 70% della popolazione di Burns.
All’inizio le autorità federali non sembravano aver scelto la linea dello scontro frontale ma la situazione, a lungo andare, non poteva che degenerare in violenza. Dopo settimane di inutili negoziati, il 27 gennaio alle 4.25 di mattina i poliziotti hanno deciso di intervenire bloccando la strada sulla quale un gruppo di manifestanti si stava recando ad una riunione con altri gruppi nazionalisti di Nevada e Arizona. L’Fbi ha detto che gli uomini armati hanno fatto resistenza, ma non è chiaro chi abbia aperto il fuoco per primo. Nello scontro è stato ucciso il rancher Robert LaVoy Finicum, 55 anni, che fin dal principio della protesta è stato considerato il portavoce del gruppo di allevatori ribelli. L’agenzia ha descritto la sparatoria e gli arresti come il risultato di “misure di esecuzione per portare in custodia un certo numero di individui associati con l’occupazione armata del Rifugio”.
A partire dal tragico conflitto a fuoco, dopo 41 giorni gli ultimi dimostranti si sono arresi alle autorità, e i procuratori federali hanno presentato accuse di cospirazione contro un totale di 25 persone associate con l’occupazione armata del Rifugio per aver ostacolato gli ufficiali attraverso la “forza, l’intimidazione e le minacce”. I 23 uomini e 2 donne, provenienti da vari Stati, hanno numerosi precedenti coinvolgimenti nell’attivismo conservatore e in attività criminali.
Quello che è accaduto in Oregon si innesta inoltre nella crisi economica che queste zone rurali, in cui si vive tradizionalmente di bestiame e legname, hanno conosciuto negli ultimi anni e che ha acuito l’insofferenza nei confronti del governo federale, accusato di appropriarsi di gran parte della terra a danno degli allevatori. Ma il dibattito statunitense sul diritto alla terra ha origine fin dalla nascita dell’Unione: nel 1890 in risposta ai danni ambientali provocati dallo sfruttamento dei ricchi territori dell’Ovest il governo federale ha tenuto porzioni significative della maggior parte degli Stati occidentali (che non erano state rivendicate per alcun uso) per la conservazione delle foreste. Molto terreno rimaneva ancora non reclamato anche dopo che tali riserve sono state inizialmente istituite. Il Bureau of Land Management è stato creato per gestire gran parte di quella terra. Così facendo si sono prodotti cambiamenti sulle attività di estrazione, allevamento e stoccaggio, e tasse. Fin da subito si profilava quindi una questione di “diritti” degli uni opposti a quelli del governo.
Gli allevatori dell’Ovest chiedono che il governo federale privatizzi i terreni o li affidi alla gestione delle agenzie locali, dal movimento Sagebrush Rebellion degli anni ’70 e ’80 (che annoverava tra i suoi sostenitori Ronald Reagan) al più recente caso di contrapposizione tra singoli e federali per i diritti all’uso della terra di E. Wayne Hage.
Allevatore del Nevada, Hage dagli anni ’90 si è battuto con il governo sostenendo che l’US Forest Service e il Bureau of Land Management avevano violato i suoi diritti costituzionali e statutari interferendo per oltre un decennio con la sua capacità di accedere e utilizzare la sua acqua per il bestiame, per irrigare il suo ranch e per usi domestici, e rifiutando di trattare le sue domande di rinnovare il permesso di pascolo. Le agenzie sostenevano che Hage avesse sconfinato sulle terre federali con il suo bestiame, e allo stesso tempo hanno cercato di trasferire i suoi diritti d’acqua ad altri individui, sollecitando e concedendo diritti di pascolo temporanei ad altri nelle zone in cui la famiglia Hage aveva storicamente portato il bestiame e possedeva un interesse prioritario. Nel 2013 il tribunale distrettuale del Nevada ha emesso una sentenza di 104 pagine in cui è stato stabilito che le agenzie erano “arbitrariamente e vendicativamente entrate in una cospirazione intenzionale per privare Hage non solo dei permessi, ma anche dei diritti acquisiti sull’acqua violando i suoi diritti al giusto processo.”
Se i fini del governo fossero prevalentemente a tutela dell’ambiente e non primariamente economici, allora perché concedere, ad esempio, le licenze per il fracking sul suolo pubblico alle grandi aziende? Il fracking – la fratturazione idraulica delle rocce, tecnica estrattiva che inietta in profondità una miscela ad alta pressione di acqua e agenti chimici per rompere la roccia e liberare gli idrocarburi – ha preso definitivamente il sopravvento nel 2005 grazie all’amministrazione Bush-Cheney che esentò questa pratica dalle leggi di protezione ambientale negli Usa (fra cui il Safe Water Drinking Act) e che aprì le terre demaniali degli Stati centrali ai petrolieri. La produzione, seppur elevata, non copre il fabbisogno nazionale: gli Usa devono importare gas dal Canada. Allo stesso tempo però lo esportano. Secondo uno studio del Servizio Ricerca del Parlamento Europeo, le società del fracking a volte guadagnano dalla vendita di licenze di trivellazione più che dalla vendita di gas.
Nella sperduta regione di Bakken, North Dakota, a ridosso del confine canadese, l’intensa attività petrolifera degli ultimi anni ha prodotto tanti posti di lavoro e dato vita a un piccolo boom economico in cui sterminate praterie, che un tempo ospitavano le tribù dei nativi Dakota, il Parco Nazionale Theodore Roosevelt e allevamenti di carne bovina pregiata, sono state spazzate via da pozzi estrattivi che oggi lavorano a pieno ritmo.
I risultati: inquinamento del terreno, avvelenamento delle falde acquifere sotterranee, suolo sterile. Inoltre il gas libera sostanze volatili potenzialmente pericolose e materiale radioattivo. Molte famiglie degli Stati in cui si trovano questi pozzi hanno denunciato casi di rubinetti dell’acqua che si infiammano a causa del metano che ne fuoriesce. Le autorità federali e statali di regolamentazione permettono che la maggior parte degli impianti di trattamento delle acque reflue che accolgono i residui delle trivellazioni non vengano testati per la radioattività.
La tecnica è sotto accusa per l’impatto ambientale e per la salute, ma non solo: secondo l’United States Geological Survey – l’agenzia scientifica governativa Usa che si occupa del territorio, delle risorse naturali e dei rischi che lo minacciano – l’estrazione di petrolio tramite fracking provoca terremoti.
Il fracking è legale in molti Stati ma dal 2015 quello di New York ha detto basta “per i troppi rischi per la salute dei cittadini”, nonostante le pressioni delle lobby delle energie fossili che tentano con grossi finanziamenti di corrompere le aree più povere.
Un po’ come la storia delle licenze di trivellazioni concesse dallo Stato italiano a compagnie straniere e nazionali per effettuare perforazioni petrolifere nell’Adriatico, da nord a sud, con la tecnica dell’air-gun (si spara aria compressa in acqua producendo onde che si propagano nel fondale, segnalando così la presenza di gas o di liquidi), dannosa per l’ecosistema marino, specialmente nel tratto delle isole Tremiti e della Costa dei trabocchi, che attende dal 2001 di essere trasformata in parco nazionale. Il fatto ha suscitato la sollevazione dei governatori delle regioni interessate, specie della Puglia. Dopo otto anni e sei quesiti referendari sulla possibilità di trivellare entro le 12 miglia dalla costa e sul territorio, i primi di febbraio il Ministero dello Sviluppo Economico ha finalmente rigettato tutte le 27 domande di autorizzazione alla ricerca petrolifera di petrolio e gas entro le 12 miglia dalla costa.
Neppure lo stato cileno sembra sottrarsi alla salvaguardia dei propri interessi economici a scapito di quelli delle popolazione, in particolar modo della tribù indigena dei Mapuche: dal 2006 nega il diritto alla loro terra e l’accesso all’acqua per offrirli a pagamento alle grandi compagnie idroelettriche per la costruzione di dighe. Inoltre, le piantagioni forestali intensive su migliaia di ettari occupati e sfruttati da imprese forestali come Forestal Mininco, Volterra, Mininco e Arauco hanno prosciugato i bacini dei fiumi, e tutto questo influisce non poco nella stagione degli incendi.
Nel settembre del 2014 ha avuto inizio un recupero territoriale nella località Lumaco Bajo, con finalità produttive e di rivendicazione dello spazio ancestrale Mapuche attualmente in possesso di una famiglia di coloni. Lì, in pochi ettari, vive la Comunità Marriao Kolliwinka privata di ciò che una volta le apparteneva. Allo stesso tempo Lumaco Bajo è la zona in cui la Compañia Hidroelèctica Pilmaiquèn s.a., acquistata dalla compagnia statale norvegese Statkraft, vuole costruire il muro della diga di Osorno, che distruggerà il complesso cerimoniale sacro, tramite inondazione.
La polizia cilena si è resa complice degli atti di violenza contro i Mapuche da parte dei latifondisti e dei loro dipendenti. A nulla sono serviti gli appelli della Segreteria Internazionale dell’Organizzazione Mondiale Contro la Tortura, di Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani. Le rivendicazioni territoriali dei Mapuche sono legittimate dai trattati della Comunità Internazionale e delle organizzazioni alle quali il Cile ha aderito, e sono conformi alle leggi esistenti rispetto ai popoli indigeni e tribali.
L’annoso dibattito Usa sulla maggiore disponibilità delle terre federali ai singoli Stati è diventato oggi più feroce e violento, nonché strumentalizzato politicamente (la milizia dei Bundy ne è la prova). Da una parte le istanze più o meno giuste dei proprietari terrieri, dall’altra l’effettivo interesse affinché il territorio e le risorse naturali vengano tutelate ed utilizzate al meglio. Le contraddizioni che emergono da entrambe le parti dimostrano che l’argomento è lungi dall’essere improntato su ragioni idealistiche: il governo, stretto tra finalità di salvaguardia dell’ambiente e il rilascio di licenze alle lobby; gli allevatori, tra la rivendicazione del loro diritto alla terra da pascolo, il rifiuto di pagare le tasse e il portare avanti il proprio profitto personale, abusando di terreni e risorse a detta degli ambientalisti.
Le radici di questo episodio affondano nella fondazione stessa degli Usa e nella loro visione individualista, in base a cui le aziende rurali – prevalentemente a conduzione familiare e indebolite economicamente dalla crisi, ma pur sempre appartenenti alla middle-class rurale di Burns nel nostro caso – vedono ancora la proprietà come diritto naturale, acquisito, e in questa ottica lo Stato è disconosciuto in quanto visto come usurpatore al servizio delle corporations.
La questione è politica e sociale: “usare la terra in totale libertà” come vorrebbero gli allevatori locali Usa non è né fattibile né auspicabile, poichè gli abusi di chi bada ai fatti propri sono sempre dietro l’angolo. E non può essere casuale il fatto che Trump, con la sua politica populista, violenta e inqualificabile, ha trionfato proprio in quel Nevada i cui allevatori “ribelli” vedono in lui la voce dei loro motivi di sfogo e della loro rabbia.
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