Tutti gli Hemingway de l’Avana

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Forse pioverà, forse continuerà a soffiare quel vento umido che viene da nord, dal mare e che si insinua nelle stradine dell’Avana Vecchia. La vedi, la brezza mentre corre tra le caviglie, tra le colonne e i capitelli che spuntano dove meno te li aspetti, tra le facciate in pietra, portoni d’un blu primario. La polizia, con calma, inizia a sbarrare la strada alle auto. Solo i pedoni filtrano. Dobbiamo sbrigarci. Volevamo arrivare a Cuba prima degli americani e ci siamo riusciti, ma solo per poche ore. È il 21 Marzo del 2016 e Obama è qui, all’Avana, e tra pochi minuti il corteo presidenziale se non ci muoviamo ci passerà sotto il naso, s’infilerà nei viali di una città ariosa e monumentale, tra gli echi architettonici di una bella époque da fare invidia a Parigi.

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La Bodeguita del Medio è un buco tre metri per tre, imbottito di crocieristi con la coccarda MSC sulla t-shirt. Sul retro, alle spalle della barista, vedi i tavolini e le pareti azzurre ricamate fitte fitte a pennarello dagli avventori. È il bancone, il maledetto bancone, il luogo. Il legno è lucido come il piede d’un santo e i mojito in fila attendono di essere  innaffiati di ron. E lui te lo immagini lì, in camicia bianca e panama, a mezzo isolato dalla Cattedrale, a bere e firmare tovaglioli. Uno è esposto in alto e dice:

“My mojito in La Bodeguita, My daiquiri in El Floridita”

Sì, ci siamo. Siamo proprio lì, come nel cuore dell’archetipo. Ce ne sono un paio che gli assomigliano di brutto. Poi tre note di flauto, un tonfo di congas, e una canzone scavalca tutto, la cantante ha una voce potente e la salsa sembra in grado di anestetizzare qualsiasi trauma, qualsiasi dolore. Ma l’obiettivo non è l’oblio, e lì dentro c’è davvero qualcosa. Il mondo è pieno di non luoghi, di squallore anni ottanta, quando ci imposero di essere predatori o polli d’allevamento. Il mondo straripa di luoghi a perdere. E la Bodeguita del medio è un posto reale. La Bodeguita è il luogo dove con un minimo potresti addirittura capire come viene in mente che la tristezza e il dolore non puoi eliminarli, ma puoi farne una cumbia. O romanzi immortali.

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L’ultimo Hemingway è forse il migliore. E tutti quelli con le barbe bianche e quelli con i berretti e le visiere mi ricordano quella versione. O forse sono io che ne vedo tanti. Dopotutto immaginare l’Avana dei tempi Hemingway, quella de Il vecchio e il mare e Isole nella corrente non richiede una fervida immaginazione. Le carrozze e le auto che attraversano il centro sono ancora le stesse di allora. Cinquantacinque anni di embargo e di blocco economico hanno costretto i cubani a conservare e curare ogni cosa come risorsa insostituibile, a forgiare da loro stessi i pezzi di ricambio. Oggi le Buick celeste confetto sembrano salutare Obama e dirgli sì, siamo noi, siamo il simbolo del vostro sogno di benessere, vive e funzionanti. Alla faccia della obsolescenza programmata. E così, paradossalmente, Cuba ha conservato le icone del sogno americano meglio di chiunque altro.

Isole nella corrente, pagina 304:

‘Adesso il Floridita era aperto e lui comprò i due giornali che erano usciti, “Crisol” e “Alerta”, e se li portò al bar. Prese posto su un alto sgabello all’estrema sinistra del banco. Aveva le spalle al muro che dava sulla strada e il fianco sinistro coperto dal muro dietro il banco. Ordinò un doppio daiquiri ghiacciato senza zucchero.’

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Ci arriviamo dal Paseo Martì, lasciandoci alle spalle ‘el Capitolio’. L’entrata è sotto un’insegna all’angolo di un incrocio dove penseresti di essere a Roma dalle parti di via del Corso, ma cinquanta anni fa. La fila fuori è innervante, ma non c’è altro modo di entrare. Lo trovi ancora lì Ernest Hemingway, nel bar più aristocratico di Cuba. Il Floridita è in stile belle époque statue e fiori, il tipo di statue che tengono fiori in braccio. I frigoriferi dietro al bancone sono d’un bel rosso britannico e le lettere in oro. Sul bancone vicino al muro la sua statua di bronzo. A quel bancone si sono appoggiati Graham Greene, Ezra Pound, Gary Cooper e Jean Paul Sartre, per dirne alcuni, ma è ad Hemingway che hanno fatto la statua. Il Floridita è il bar più bello che abbia mai visto, e il daiquiri è all’altezza della leggenda, ma la statua di Hemingway al bancone infastidisce. Vero è che in quel pezzo di bronzo c’è l’affetto profondo di un popolo intero, ma quella statua non mi piace. Ha un’aria bonaria e spaccona insieme. È sul bonario che non mi trovo, ed Hemingway lì voglio immaginarlo reincarnato, preferisco l’illusione di un guizzo emanato da una delle sue innumerevoli repliche, tra i tentativi falliti di reincarnazione, tra gli usurpatori in barba bianca che si siedono al bancone ordinando un daiquiri. Quel simulacro di bronzo è un ammazza fantasmi che divora sul nascere ogni germoglio di magia.

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Quello di Hemingway a Cuba è un culto, uno dei due, con tanto di casa generalizia. L’altro è Santa Clara. Il museo ha sede a San Francisco de Paula, in cima ad una collina che da lontano domina l’Avana e il porto. La comprò con l’anticipo sui diritti di Per chi suona la campana, circa 17.000 dollari del 1939. Si chiama Finca Vigìa ed è museo nazionale. Il tragitto è descritto in una memorabile pagina che percorriamo al contrario, salendo.

“Della strada che portava in città quello era il tratto che non gli piaceva. Era per quel tratto che si portava qualcosa da bere. Bevo contro la miseria, la sporcizia, una polvere di quattrocento anni, il moccio che cola dal naso dei bambini, le fronde di palma schiacciate, i tetti di latta spianata col martello, il passo strascicato della sifilide non curata, il liquame nei vecchi letti dei torrenti, i pidocchi sul collo spelacchiato dei polli ammalati, la puzza delle vecchie e la radio a tutto volume …”

La prima cosa che noti è la bandiera americana all’entrata della proprietà. Non ce l’hanno messa per Obama. È un amore odio profondo, quello tra Cuba e gli Stati Uniti, dinamiche degne di una corrida. Le riviste degli anni quaranta all’ingresso del salotto colpiscono più delle teste di orice, di kudu e impala che sporgono impagliate dalle pareti, colpiscono più della testa di leonessa sulla scrivania. Tutto intorno le piante prendono il sopravvento come a Miramar, il quartiere coloniale, dove le chiome immense degli alberi fanno sentire piccole le persone e le panchine, e le colonne e i capitelli dei portici diventano l’ordito screpolato di una borghesia sudista, come a Savannah o New Orleans. Chissà se gli alberi intorno alla piscina erano così alti, quando Ava Gardner faceva il bagno nuda. Le guide, scritte o in carne e ossa, insistono a riportare il dettaglio.

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La piscina vuota è dello stesso azzurro insostenibile dei portoni del centro, e i rami si chiudono a tunnel sulle sdraio e sulle sedie a dondolo di metallo laccato bianco. Un ficus impone infinite venature selvagge al praticello curato.

Il Pilar è un Wheeler di rovere e mogano. Hemingway ci andava a pesca, o a caccia di U-Boote nazisti dalla parti di Varadero e di Cayo Santa Maria. E se la parte più nobile di una barca è la prua, la faccia che affronta il mare, quella prua è magnifica, affilata e sobria come la katana al fianco di un samurai.

Il pozzetto è il palcoscenico di altre sfide. Su quella poltroncina da dentista gli uomini si misuravano con loro stessi. Lotte estenuanti con pesci enormi, combattivi, che non ne volevano sapere di finire all’asciutto. Lì Andy, il figlio prediletto di Thomas Hudson, punta i piedi fino a farli sanguinare mentre combatte con un marlin, reiterando una tematica cara all’autore: l’identificazione del cacciatore con la preda. Quello è il pozzetto dove Hemingway, probabilmente, avrebbe preferito finire i suoi giorni crivellato dai colpi di un disperato equipaggio tedesco di U-Boote. La morte dovrebbe essere una pratica da sbrigare velocemente, breve come le frasi brutali in quei battibecchi spiazzanti, inesorabile come la danza tra predatore e preda.

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“Writing, at its best, is a lonely life.”

Aveva detto nel ricevere il Nobel per ‘Il vecchio e il Mare’, premio che poi consegnò al popolo cubano.

Una banda di cecoslovacchi in formato delegazione si arrampica in cima alla scala esterna della torretta. Per fortuna le folle funzionano a ondate, a un certo punto non c’è più nessun rumore. Solo gli uccelli che lamentano il cielo grigio. La custode del museo veste una divisa color kaki, tacco alto e calze a rete, come le doganiere all’aeroporto. Queste donne sono sbalorditive. Era quassù che Hemingway, con il gatto preferito sulla pancia, si tirava fuori dal mondo per fabbricarne di ancora più realistici. Adesso sono solo non c’è nessuno in giro, solo la custode in calze a rete e l’origine di tutti gli Hemingway è proprio qui davanti a me:

QWERTY

 

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