Beluga e le nostre interferenze
Quando guardiamo la distesa blu del mare, in una giornata calma, tutto sembra tranquillo e silenzioso. Ma sotto la superficie, una cacofonia di rumori prodotti dalle attività umane si propaga ovunque, grazie all’efficienza dell’acqua nella conduzione dei suoni. A farne le spese, come già si è detto in questo sito, sono soprattutto quegli organismi marini che si affidano al suono per comunicare, orientarsi, e cacciare: i cetacei.
Fra questi, uno dei più sensibili è il beluga, detto anche “canarino di mare” in virtù della musicalità dei suoi vocalizzi, che sembrano davvero dei cinguettii. La vocalizzazione è una capacità fondamentale per questi abitanti del circolo polare artico, che trascorrono al buio ben sei mesi l’anno. Nell’oscurità dell’inverno artico, il suono fa le veci della vista, come precisa Valeria Vergara, ricercatrice all’acquario di Vancouver. Vergara ha individuato ben 28 vocalizzi diversi usati dai beluga specificamente per comunicare; altri suoni sono usati per l’ecolocalizzazione delle prede e per l’orientamento.
Il beluga è un cetaceo dall’aspetto davvero affascinante: ha una pelle liscia e candida, è privo di pinna dorsale, e ha una grossa testa tondeggiante che può voltare di lato (a differenza di altri cetacei, le sue vertebre cervicali non sono saldate). È una specie costiera che vive nel circolo polare artico e nella zona circostante, e stagionalmente migra in acque basse anche 1-3 metri. Durante l’estate, al disgelo, i beluga formano enormi branchi e si radunano negli estuari e nei fiordi, arrivando a volte a centinaia di chilometri dalla costa. Nonostante il rischio di spiaggiamento, quest’abitudine comporta diversi vantaggi: l’acqua negli estuari è più calda di qualche grado rispetto al mare aperto, facendo risparmiare ai beluga l’energia per scaldarsi; inoltre le prede (pesci, molluschi e crostacei) sono più abbondanti, ed il fondale ruvido può essere utilizzato per grattarsi e favorire la muta cutanea, che questi animali compiono annualmente.
Questi cetacei sono filopatrici, ovvero tendono a tornare ogni anno allo stesso estuario, una caratteristica che li rende facili prede per l’uomo. In effetti, sono stati cacciati pesantemente in passato, fino a portare alcune popolazioni a livelli critici di densità.
È il caso dei beluga che abitano l’estuario del S. Lorenzo, in Canada, al margine meridionale della zona di distribuzione, e che sono piuttosto isolati dalle popolazioni più a nord. La caccia al beluga è stata vietata nel 1979 proprio per tutelare queste popolazioni più vulnerabili; ciononostante, negli anni successivi i ricercatori si sono resi conto la popolazione non dava segni di ripresa. Perché? Inizialmente la causa più probabile sembrava essere l’inquinamento: il S. Lorenzo è a valle della zona dei grandi laghi, dove i livelli di densità abitativa e di attività industriale sono particolarmente alti. E in effetti i cetacei in quell’area avevano nei loro tessuti altissimi livelli di PCB, composti clorurati che indeboliscono le loro difese immunitarie, rendendoli più suscettibili alle infezioni da parte di batteri, virus e parassiti. Anche il tasso di mortalità per cancro era elevatissimo nell’area, probabilmente a causa degli idrocarburi policiclici aromatici, potenti agenti cancerogeni concentrati nei sedimenti. A seguito di queste osservazioni sono state adottate misure per ridurre la contaminazione chimica, ed infine nel 1998 è stato istituito il parco marino di Saguenay-St. Lawrence.
Eppure la popolazione continua a diminuire: Robert Michaud, uno dei massimi esperti mondiali della biologia del beluga, da sempre lavora nella zona dell’estuario del S. Lorenzo ed ha osservato che negli ultimi anni il numero di piccoli beluga trovati morti sulle spiagge è aumentato in modo drammatico, come pure il numero di casi in cui la madre muore nel dare alla luce i piccoli. Nel 2014 la popolazione, ridotta ad appena 900 esemplari, è stata dichiarata a rischio di estinzione.
Le cause alla base di questo declino allarmante sono ancora sconosciute, e probabilmente molteplici. I beluga risentono molto del riscaldamento globale, che ha effetti dirompenti nell’Artico. Oltre a ridurre la disponibilità di prede, l’aumento della temperatura riduce lo spessore e l’estensione dello strato di ghiaccio: per i beluga diventa più difficile trovare rifugio dal vento e dalle onde, e questo può indebolire soprattutto le femmine gravide, aumentando il rischio che muoiano durante il travaglio. Inoltre come altri cetacei i beluga sono molto sensibili, a causa delle caratteristiche del loro ciclo vitale, all’avvelenamento da contaminanti organici persistenti. Come già discusso in un precedente articolo su questo sito, si tratta di killer silenziosi che si accumulano nelle acque e nei sedimenti, e da lì salgono lungo la catena alimentare fino a concentrarsi nei tessuti dei grandi predatori, devastandone la capacità riproduttiva.
Alcuni fatti in particolare però hanno attratto l’attenzione dei ricercatori: l’aumento della mortalità di piccoli e madri è iniziato nel 2003, proprio come l’incremento del traffico delle imbarcazioni ricreative. Inoltre gli anni in cui la mortalità è stata più alta sono quelli più secchi e caldi, in cui un numero maggiore di barche ha visitato le aree abitate dai beluga proprio in luglio e agosto, i mesi in cui nascono i piccoli.
E qui è entrata in gioco la Dr. Vergara, con i suoi studi sulle vocalizzazione. Vergara ha scoperto che la madre e il piccolo utilizzano impulsi sonori ad una frequenza specifica per tenersi in contatto. Inoltre il piccolo ci mette uno o due anni per imparare a parlare, e riprodurre fedelmente il vocalizzo di contatto con la madre. Durante i primi mesi emette un suono a frequenza minore, che somiglia a quello che si ottiene passando un dito sui denti di un pettine (è possibile ascoltarlo sul sito web dell’acquario di Vancouver). Questo suono può essere facilmente coperto dal rumore di una barca, e causare la separazione dalla madre del piccolo beluga, che non è ancora in grado di alimentarsi da solo, dato che l’allattamento in questa specie dura 20-24 mesi. In effetti, i piccoli trovati morti non mostrano segni di malattia: sono morti di fame. L’inquinamento acustico può anche contribuire a causare la morte delle madri mentre danno alla luce i piccoli, probabilmente perché il disturbo provocato dal rumore aumenta la durata del travaglio, e questo può indebolire le madri fino a condurle alla morte.
Ironia della sorte, fra le barche che disturbano i cetacei vanno incluse quelle che fanno attività di whale watching. Non è la prima volta che si discute dell’impatto negativo del whale watching sui cetacei: ci sono molti casi ben documentati in cui la presenza delle barche ha indotto modifiche del comportamento abituale, che in alcuni casi possono provocare effetti negativi a lungo termine per tutta la popolazione coinvolta. In particolare, il rumore può indurre gli animali ad aumentare il volume dei vocalizzi, con un costo energico a volte importante, o interrompere completamente le comunicazioni fra membri della specie. Questo li espone ad un maggior rischio di predazione e riduce la loro capacità di cacciare, trovare un partner riproduttivo, o come nel caso del beluga, prendersi cura dei piccoli. Spesso gli animali disturbati si spostano in nuovo territorio, ma anche questa soluzione è energeticamente dispendiosa; inoltre il nuovo habitat può essere meno ricco di risorse alimentari o comportare un maggior rischio di predazione. Se avevano scelto di vivere in una determinata aera, insomma, sicuramente avevano le loro buone ragioni! Va notato anche che l’assenza di risposte comportamentali non vuol dire necessariamente che l’animale non sia disturbato, anzi, in studi su altri organismi si è osservato che gli esemplari che non reagiscono al disturbo sono quelli più deboli, che non hanno il surplus di energia necessario per spostarsi altrove, e quindi più vulnerabili.
Certo, il whale watching ha anche molti aspetti positivi: con un indotto di circa 1,5 miliardi di euro l’anno ha sostituito egregiamente dal punto di vista economico attività molto più pericolose per l’ambiente, e senz’altro ha contribuito ad aumentare la sensibilità del pubblico nei confronti della conservazione dei cetacei. Basterebbe diminuire la velocità delle barche a motore, rispettare una maggiore distanza di sicurezza dagli animali, ed evitare di effettuare le uscite in aree o momenti particolari, in cui gli animali si dedicano ad attività cruciali per la loro sopravvivenza. Con pochi accorgimenti, anche quest’attività può diventare più sostenibile.
Per saperne di più:
- http://killerwhale.vanaqua.org/page.aspx?pid=1379
- http://gremm.org/
- http://www.iucnredlist.org/details/6335/0
- http://www.hindawi.com/journals/jmb/2012/807294/
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