Uomini e Coralli

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Questo è stato un anno terribile per i coralli. L’enorme evento di sbiancamento che ha coinvolto un quarto della Grande Barriera Corallina australiana, dovuto alle temperature particolarmente alte, è il peggiore di sempre. E pensare che la Grande Barriera veniva universalmente considerata un esempio di gestione ottimale dell’ecosistema corallino.

A devastare le barriere coralline, in tutto il mondo, non è solo l’aumento globale delle temperature, ma anche l’acidificazione degli oceani – entrambi dovuti all’uso dei combustibili fossili.

I coralli sono organismi antichissimi, il cui successo negli oceani si deve alla simbiosi con le zooxantelle, alghe unicellulari fotosintetiche. Le alghe si sono adattate a vivere al sicuro nei tessuti del corallo (per essere precisi, dentro le sue cellule), e ad utilizzarne i prodotti del metabolismo (anidride carbonica e composti azotati). Il corallo viene ricompensato per la sua ospitalità con un’enorme quantità di composti organici, che copre circa il 90% del suo fabbisogno energetico, così che solo il rimanente 10% deve essere ottenuto dal cibo. Per poter usufruire del surplus di energia fornito dalle zooxantelle i coralli devono vivere esposti alla luce solare, necessaria alle alghe per la fotosintesi: sono tipicamente organismi di bassa profondità ed in genere non si trovano al di sotto dei 50 metri. Anche se le alghe forniscono ai coralli delle sostanze che agiscono come uno schermo solare e li proteggono dalle radiazioni UV, la vita nelle acque basse può essere un bel problema in condizioni di riscaldamento globale.

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Se la temperatura dell’oceano supera un valore soglia, il corallo espelle i suoi simbionti. Perdendo le alghe, il corallo diventa trasparente, e noi vediamo solo il bianco dello scheletro calcareo: per questo si parla di sbiancamento. A volte il processo è reversibile, e quando le condizioni rientrano nella norma le zooxantelle possono essere nuovamente acquisite. In effetti, gli specialisti credono che l’espulsione dei simbionti sia un adattamento che i coralli hanno evoluto proprio per poter reagire ai cambiamenti ambientali. Esistono varie specie di zooxantelle, ciascuna adattata a particolari condizioni di illuminazione e temperatura. Se le condizioni si modificano, per il corallo può essere vantaggioso sostituire i suoi ospiti con altre specie in grado di offrire la massima efficienza alle nuove condizioni. I coralli in effetti sono organismi molto resilienti, e la loro lunga storia evolutiva è costellata di lunghi periodi di collasso (durati anche 20 milioni di anni) seguiti da fasi di ripresa. Ma le condizioni ambientali non sono mai cambiate con la rapidità cui assistiamo oggi. Quest’anno poi sono state davvero estreme: all’aumento generalizzato della temperatura globale si sono sommati gli effetti di El Niño, causando un prolungamento fuori del comune della condizione di stress termico. Lo sbiancamento in atto potrebbe durare fino a due anni e mezzo, e difficilmente i coralli saranno in grado di recuperare dopo uno stress di questa portata. Con i coralli scompare una bella fetta di biodiversità: anche se occupano solo l’1% dei fondali, i reef ospitano almeno un quarto della biodiversità marina, e sono il luogo di riproduzione di moltissime specie di pesci.

pesce tra coralli

Di fronte al degrado di questo ricchissimo ecosistema è facile farsi prendere dallo sconforto, e anche noi ricercatori ci chiediamo a volte perché investire tante energie nello studio di ecosistemi e organismi che sembrano destinati a scomparire in breve tempo. Che senso ha? Per me, ha sempre senso: quando fai ricerca sai da dove parti, ma non dove arriverai. Spesso finisci col trovare risposte inaspettate, in grado di cambiare i paradigmi e le prospettive dominanti, e di aprire nuove strade. E così, in ambito conservazionistico, ci si sposta dalla pura documentazione del degrado ambientale e delle sue conseguenze, alla proposta di nuovi punti di vista, di una base per proporre soluzioni innovative.

E, forse, ecco un esempio, proprio relativo ai coralli. Uno studio appena pubblicato su Nature evidenzia che oltre ai reef pesantemente degradati esistono anche alcuni bright spots, ovvero delle aree in cui l’ecosistema corallino è in condizioni molto migliori di quello che ci si aspettava. E no, non si tratta solo di aree remote ed incontaminate.

Il team di ricerca guidato da Joshua Cinner (dell’ Australian Research Council Centre of Excellence for Coral Reef Studies) ha preso in esame più di 2500 reef in 46 paesi, identificandone non solo i parametri ambientali, ma anche le caratteristiche sociali e culturali: un approccio usato da tempo da chi si occupa di salute umana e di sviluppo, ma nuovo per la conservazione dell’ambiente marino. Il lavoro è basato sull’individuazione degli outliers, ovvero i siti dove le condizioni dell’ecosistema sono sostanzialmente migliori (o peggiori) di quanto ci aspetterebbe data la situazione ambientale e le pressioni socioeconomiche predominanti. Per valutare le condizioni del reef, i ricercatori hanno usato la biomassa dei pesci, che è considerata un buon indicatore della salute dell’ecosistema corallino.

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Quello che è emerso sui bright spots sfida parecchi preconcetti della gestione delle risorse naturali. Infatti, nella maggior parte dei casi corrispondono ad aree popolate, dove si pesca attivamente, mentre le azioni di conservazione si concentrano spesso su siti remoti, lontani dall’impatto umano, considerati di alto valore. In realtà, alcune aree incontaminate nello studio del dr. Cinner sono risultate essere dei dark spots, in cui le condizioni del reef sono peggiori delle attese. I ricercatori hanno poi evidenziato una serie di caratteristiche socioculturali comuni ai bright spots: un alto livello di dipendenza della popolazione dalle risorse locali, da cui deriva un ampio coinvolgimento nella loro gestione. Ad esempio a Karkar, un’isola di Papua Nuova Guinea, l’uso delle risorse marine viene gestito usando un sistema a rotazione che si basa sull’osservazione delle condizioni ecologiche dell’area sfruttata, e i pescatori che non fanno parte della popolazione locale vengono esclusi da certe aree di pesca. Inoltre i bright spots tendono ad essere lontani dai grandi centri urbani, che favoriscono il distacco, anche emotivo, dalla natura.

Certo, è ben poca cosa rispetto agli effetti devastanti del riscaldamento globale. Ma questo studio è molto importante, perché sottolinea, e supporta scientificamente, l’idea che non necessariamente la conservazione della natura è in contrasto con lo sviluppo e l’economia locale. L’opposizione fra uomo e natura ha ancora molta presa sull’opinione pubblica: a tutti noi sarà capitato di sentire qualcuno difendere il diritto dei popoli di privilegiare il proprio sviluppo economico ai danni delle risorse naturali. In realtà, uno sfruttamento oculato delle risorse ambientali, che integri uomo e ambiente, risulta nella tutela di entrambi. Un po’ come nella simbiosi del corallo con le zooxantelle.

Per approfondire:

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  1. Mateus
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