Hiroshima

 

Te l’immagini diafana, senza ombre. Possibilmente immobile sotto un cielo spezzato. Hiroshima è uno di quei luoghi sacri della Terra che lo sai già, non ne uscirai intatto. Come non esci mai vivo del tutto da un’immagine di Salgado.

Allora l’affronti per gradi, lasciandola scorrere fuori dai finestrini, il cuore al sicuro in un autobus turistico. Un vento secco muove le fronde più alte e vedi spuntare la cupola liberty, a colori e sul verde di un parco di ciliegi ben tenuto. È l’Atomic Dome, l’unica struttura rimasta in piedi alle otto e quindici del 6 agosto 1945.

Quella mattina il cielo era limpido, ripulito da una piacevole brezza. Un B-29 americano l’attraversò luccicando come un lustrino a 9.500 metri di quota. Chissà se qualcuno, prima di diventare cenere, vide cadere quel grosso scarafaggio di Little Boy, la bomba atomica.

Al mattino l’autobus che passa per il centro raccatta scolari in divisa ad ogni fermata. L’autista è in guanti bianchi e annuncia al  microfono le fermate, invita a prendere posto. Sono le otto, e il cielo è terso come al mattino di quel giorno. Allora Hiroshima era un florido centro cresciuto intorno ad un castello tra due fiumi e in prossimità dello sbocco al mare. Il 6 agosto ’45 contava circa 350.000 abitanti, una clinica universitaria, alcune industrie, università importanti e scuole superiori. C’erano le caserme, con le scuole di guerra, le reclute e i soldati. Erano questi ultimi, la scusa.

 

Ieri, al ristorante dell’ultimo piano dell’albergo, la cameriera nel porgere il conto s’è inginocchiata in una posa strana, con una gamba in avanti, come un cavaliere medievale. Secondo l’etichetta chi serve non può guardare dall’alto in basso. Porto il mio sguardo alla sua altezza con un inchino e mi accorgo che qui ti guardano tutti negli occhi. Non c’è nulla di servile nei loro gesti, semmai qualche residuo di un maschilismo antico, ma nella cultura più raffinata del mondo vince l’estetica, che straripa silenziosa dai dettagli minimali. Sono le dieci di sera e abbiamo finito di cenare. Oltre la vetrata panoramica pulsa una città vivace, organizzatissima. Tra i palazzi alti di downtown ci sono caffè e ristoranti per tutti i gusti e culture, dai pub irlandesi ai karaoke. Numerose band locali si esibiscono dal vivo. Che ore saranno, a Berlino?

“Come te anch’io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza e come te ho dimenticato. Come te ho desiderato avere un’inconsolabile memoria, una memoria fatta d’ombra e di pietra. Ho lottato da sola con violenza ogni giorno contro l’orrore di non poter più comprendere il perché di questo ricordo. Come te, ho dimenticato. Perché negare l’evidente necessità del ricordo?”

Hiroshima mon amour, Alain Resnais, 1959

 

Ecco, ci siamo: il mio appuntamento con la memoria è tra i ciliegi che respirano nell’aria limpida. Dicono che a maggio lo spettacolo sia indimenticabile. Il Peace Memorial Park è una grande isola verde tra i due bracci del fiume. Lo spazio dedicato alla memoria sembra immenso, ma è solo uno spicchio dell’area devastata. Il 70% degli edifici della città divenne polvere per l’esplosione e per i fuochi che divamparono subito dopo. Nel museo un diorama del diametro di quattro metri raffigura un’immensa distesa desolata, piatta e grigia: è la città subito dopo l’impatto. Sospesa a mezzo metro sopra l’Atomic Dome, c’è una sfera rossa. Raffigura l’epicentro dell’ esplosione, innescata a 600 metri di quota. Si pensa che la torre circolare rimase in piedi per la sua forma, oppure perché esattamente sotto l’esplosione: in quel punto le onde d’urto rallentarono per la vicinanza del suolo. Una replica del Little Boy in vetroresina è appeso in alto, su un lato della sala, sopra la foto in bianco e nero di un cadavere carbonizzato.

“I medici si trovarono davanti a qualcosa di mai visto: i cadaveri apparivano cotti dall’interno.”

Più avanti un cartello ti invita a toccare gli oggetti esposti. Sono bottiglie fuse, mattoni vetrificati, cose comuni rese irriconoscibili da un mostruoso microonde. Le tocco, sembrano di plastica. La materia manipolata dalle sue fondamenta perde la consistenza conosciuta e diventa qualcosa di alieno.

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© hpmmuseum.jp

Obama a Hiroshima, non ha chiesto scusa. Personalmente non arrivo a nessuna conclusione. 200.000 morti, per il 70% civili. Come si può chiedere semplicemente scusa? Come si può semplicemente perdonare, o dimenticare? Eppure la gente di Hiroshima ha fatto a meno dell’odio, tenendosi stretta la compostezza gentile. Nella frettolosa Tokyo, o a Kyoto, gli abitanti hanno modi assai più bruschi.

Il tassista mi domanda se sono americano. Hiroshima è piena di turisti americani. Ne vedi tanti a quegli appuntamenti con una memoria scomoda. Sono giovani ben educati. Sono in giro per l’anno sabatico dopo l’università. Forse sì, ci vorrebbe il coraggio delle scuse, ma quei ragazzi curiosi che guardano in silenzio gli ulivi e i sassi che circondano il mausoleo sono molto più concreti di qualsiasi gesto ufficiale. L’Inglese è una lingua ancora poco diffusa, ma gli abitanti di Hiroshima non si perdono d’animo. Sbagliamo autobus e l’autista scende per mostrarci gli orari dell’altra linea affissi ad una fermata. Scorre la tabella col dito inguantato di bianco. Ci rifonde il biglietto, poi riparte.

 

C’è un altro luogo sacro, vicino a Hiroshima, che è ormai entrato nell’ immaginario collettivo. È uno di quei luoghi che conosciamo tutti, perché la sua icona, come la A-Dome, non può sfuggire alle maglie della memoria, neanche ad un breve sguardo. A circa trenta minuti di treno e cinque di ferry, c’è l’isola di Itsukushima, conosciuta anche come Miyajima. È l’isola intoccabile, un tempo così sacra che non poteva essere calpestata dal piede umano. Per questo motivo il rossissimo Torii, la porta del tempio dello Shinto più fotografata del mondo, è nell’ acqua. E il tempio stesso è costruito su palafitta. Sull’isola fabbricano palette per il riso a forma di liuto, o d’arpa giapponese. Si dice che portino fortuna e prosperità. Lo Shinto assomiglia più a una superstizione che a una religione vera e propria, si nutre di sogni, di lanterne d’offerte, di nastri di preghiere che infiocchettano i templi. Un sacerdote dello Shinto una notte sognò quello strumento nelle mani della dea del riso. E i maestri scultori del legno di Miyajima iniziarono a fabbricarne a migliaia.

 

Scorro i sobborghi che sfilano fuori dal finestrino. Come in tutto il Giappone non c’è un graffito. Dopo la bomba sui muri bruciati della città cominciarono ad apparire scritte. Erano appelli dei sopravvissuti, che si contavano, che si annunciano in vita. Sull’ unico muro di una scuola elementare rimasto in piedi i sopravvissuti tracciavano i loro nomi, rassicuravano i parenti e gli amici. In fondo al corridoio del museo, l’ultima immagine è la foto in bianco e nero di una pianta.

“A meno di dieci giorni dal bombardamento la seconda guerra mondiale finì. Hiroshima fu completamente distrutta dalla bomba atomica, ma gradualmente l’elettricità, i trasporti e gli altri servizi furono ristabiliti. Gli abitanti raccolsero tutto ciò che non era stato bruciato e iniziarono a ricostruire le loro case e le loro vite. Dopo la bomba atomica si diceva che nulla sarebbe cresciuto a Hiroshima per i 75 anni successivi. Invece una pianta di canna rossa fiorì, e divenne un simbolo di coraggio e di speranza. Allora tutti i civili evacuati nelle campagne, i militari che erano andati a combattere in luoghi lontani, tornarono. E Hiroshima iniziò il suo lungo cammino verso la guarigione.”

 


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