Sharm el-Sheikh, il mare dopo la Rivoluzione

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© Mohamed LeisureTravelEgypt

Ogni volta che torno a Sharm el Sheikh ho la sensazione che un altro me stia continuando a vivere laggiù una vita parallela. Con il sole che cala alle spalle, l’isola di Tiran la vedi rossastra, sospesa tra un mare blu ardesia ed un cielo carta da zucchero. E se sei in mare nello stretto quella è l’ora in cui s’incontrano sicuramente i delfini. L’isola e la zona del Parco di Ras Mohammed, la punta del Sinai appena dietro l’angolo a sud, dànno l’idea di come poteva essere la costa di Sharm el Sheikh trenta anni fa, prima degli alberghi.

All’inizio della sua avventura Sharm era una destinazione conosciuta soltanto da subacquei molto avventurosi, non c’erano insediamenti fissi, se non tende di pescatori beduini. Molta della gente che oggi frequenta Sharm allora non ne conosceva nemmeno l’esistenza. Le sistemazioni erano spartane e spesso il viaggio comportava un lungo trasferimento dal Cairo, o da Israele, attraverso campi minati, e l’aeroporto era un aeroporto militare, un hangar di lamiera ondulata piazzato in mezzo a un deserto bollente. Era una zona che usciva da più guerre e da anni di occupazione, ma fu proprio l’occupazione israeliana, terminata nel 1982 a seguito degli accordi di Camp David, ad avviare Sharm al successo. Sulle tracce di Hans Hass e Jacques Cousteau, i pionieri europei iniziarono a porre le prime pietre e a spargere la voce su quella che sarebbe diventata la New York della subacquea mondiale. Allora si attraversava il deserto con le jeep per raggiungere i punti d’immersione, e leggendario è ancora il ricordo di un capanno messo su a Ras Nasrani, un rifugio di frasche dove poter passare la notte o ripararsi dal sole e che tutti i centri subacquei potevano usare e condividere, proprio nel punto dove adesso sorge il Melìa. Il mare era ovviamente vergine, i coralli intatti come nessun’altro li vide nei lustri successivi, ma non possiamo farci fuorviare dalle nostalgie: se non ci fosse stato il turismo subacqueo, o comunque un turismo di utenti del mare, a Sharm el Sheikh non ci sarebbero stati né i fondi, né la possibilità di creare vaste aree protette. Non ci sarebbe stata la necessità promulgare leggi severe e (va detto!) estremamente efficaci per la protezione della sua vera ricchezza: il mare. Senza il turismo probabilmente molte di quelle barriere sarebbero andate distrutte dalle reti a strascico, dalla pesca con la dinamite. Inevitabilmente il turismo di massa ha portato anche grossi svantaggi, ma ancora oggi dubito che il corallo possa essere ancora così vivo se non ci fossero stati proprio quegli alberghi. E’ la loro continuità lungo la costa ad essere sconcertante. Ma son pochi i posti al mondo che restano così come te li ricordavi, e di shock ne ho avuti di peggiori. La mia Sharm è ancora quella degli anni novanta, quando arrivavano solo subacquei o appassionati di mare, e stava già crescendo. I Casinò c’erano quasi tutti, ma di pub ce n’erano soltanto due, tutti e due a Naama Bay: il mitico Pirate’s, il bar dell’Hilton, e il bar del Camel Dive Club. C’era anche una sola discoteca, al di fuori dei resort, dei full inclusive, e si chiamava Bus Stop. Oggi al suo posto c’è il Pacha.

Eravamo più di cinquecento, tra guide e istruttori, provenienti dalle più inimmaginabili parti del mondo, eppure ci si conosceva tutti. All’epoca un istruttore free-lance con più lingue parlate poteva arrivare a guadagnare fino a tremila dollari al mese, e in nessun caso meno di mille, con un costo della vita che era caro per l’Egitto, ma di gran lunga inferiore a quello della Spagna. A quei tempi i grossi centri subacquei gestivano anche dieci, dodici barche in mare ogni giorno, ogni barca con una media di venti persone a bordo, tra subacquei e snorkelisti. E ci voleva sì, un sacco di mestiere anche per una guida già brava per evitare assembramenti in acqua. Ma le torri gemelle erano ancora in piedi, l’Iraq l’avevano bombardato la prima volta molti anni prima e la gente aveva voglia di vivere e di viaggiare, e le situazioni surreali che spesso si creavano in mare e a terra venivano vissute con ilarità, o finivano con una stretta di mano. Era quella che i ‘vecchi’ sharmesi chiamano l’età d’oro. Era l’epoca in cui tanti futuri ‘Figli di Una Shamandura’ decidevano di mollare tutto, l’ufficio, il bar e le fidanzate, per diventare guide e istruttori subacquei, ma anche guide turistiche, purché in mare, quel mare splendido che ci legava ad una vita bella, ma dura e di grande responsabilità, fatta di stanchezza e di tonnellate d’azoto residuo. Era la vita cantata dai Deco-Boys, intensa e ancora ben retribuita, ed i regali del mare ora come allora sempre puntuali con chi li sa cogliere.

Oggi la differenza la fa il volume, prima c’era più gente e noi portavamo in acqua tutti. Non c’era modo che un giocatore d’azzardo o un nottambulo, o un semplice vacanziere sfuggisse alle grinfie di un istruttore in agguato nella piscina dell’albergo, pronto a vendergli un corso sub, un’immersione introduttiva o almeno una gita snorkeling a vedere Nemo faccia a faccia nel suo anemone. Non c’era modo. Avremmo portato in mare gatti e cammelli, se avessero sganciato un centesimo.

Oggi tra i turisti di Sharm troviamo proprietari d’appartamenti, subacquei esperti, affezionati, apneisti, amanti del mare. Sono una minoranza, rispetto alle masse da full-inclusive e ballerini di macarene cui eravamo avvezzi negli ultimi anni, certo, e le presenze sono basse, ma sicuramente il loro è un tributo più gratificante per un mare che non ha mai smesso di incantare. Sulla passeggiata di Naama a fine luglio vedo poche persone al pomeriggio. “Sarà che ci siamo abituati…” mi dice Ornella del Camel, “ma a me non sembrano poche, c’è gente.” La passeggiata non è deserta e al diving c’è gente seduta sui divanetti a fumare il narghilè alla mela ed a raccontarsi la giornata in barca davanti a una birra Stella. Io me la ricordavo diversa Naama Bay, così diversa che a volte la evitavo. Sì, è migliorata. “I tempi delle dodici barche fuori son passati. Si lavora meno ma si lavora bene. Forse al limite della sopravvivenza, ma senza stress.” Lo dicono tutti. In fondo chi fa questo mestiere non cerca il benessere, ma un bel vivere, dove la ricompensa è il mare, il lavoro in sé. Nick, la editor della versione inglese del libro, incontra gli amici sharmesi per la prima volta. “Sono proprio loro, i personaggi dei tuoi libri: hippy moderni.”

Sì, siamo sempre stati più attenti alla bellezza che ai trend del mercato, chi invece ha cercato di fare del mare un’azienda senza cuore è stato punito. E’ bastata una rivoluzione lontana, in un luogo lontano da piazza Tahrir e dai suoi tumulti quanto lo è la Norvegia. Guardo il mare scorrere per la milionesima volta lungo la fiancata della barca mente torno in porto:

“There is nothing more enticing, disenchanting, and enslaving than the life at sea.”

Non c’è nulla di più allettante, disincantante e schiavizzante della vita in mare, scrisse Joseph Conrad. E tu immagina un po’ cosa può farti il mar rosso, un mare ancora perfetto.

 

http://figli-di-una-shamandura.blogspot.com/

http://youtu.be/z0JvDlxyxK4

http://vimeo.com/70926240

 

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