L’arsura, l’Acqua e gli sprechi di una comunità disarmata

 

© András Mészáros

Il mese più torrido deve ancora arrivare ma due terzi dei campi coltivati in Italia sono a secco. Secondo la Coldiretti i danni all’agricoltura ammonterebbero già a 2 miliardi di euro e almeno dieci regioni stanno presentando la richiesta di stato di calamità naturale.

Il Lago di Garda è solo al 34,4% del volume di riempimento, il fiume Po, all’altezza di Pavia è a circa 3,5 metri sotto lo zero idrometrico. In Piemonte il caldo sta aggravando anche la situazione degli alpeggi; forti sono i timori per la raccolta di frutta, uva e nocciole. In Liguria si aggiunge l’incubo degli incendi. In Veneto, la Regione ha emesso già tre ordinanze anti-siccità allo scopo di contingentare l’acqua. In Trentino Alto Adige si registrano perdite fino al 100% nelle aziende frutticole della Val di Non, della Val di Sole e della Valsugana.

La situazione non cambia nel Centro Italia. In Umbria ci si attende un calo di resa dal 30 al 50% dalle colture di grano, orzo e foraggi, mentre nel Lazio la situazione più pesante è quella dell’Agro Pontino: i raccolti compromessi ammonterebbero al 50% per mais, ortaggi, meloni e angurie. In Molise, dove le dighe sono ai minimi storici, numerosi comuni hanno emanato ordinanze “anti spreco” per salvaguardare le risorse idriche.
In Puglia la siccità ha già causato la perdita di 140 milioni di euro di grano, pomodori da industria e ortaggi e, se non dovesse piovere ancora per settimane, sarà perso anche un terzo della produzione di olive. In Calabria, oltre agli oliveti, soffrono anche i vigneti con i grappoli bruciati per il caldo estremo.
Le città, che fino ad ora sono state risparmiate, si stanno trovando di fronte un nuovo problema: la necessità di razionare l’acqua. È ciò che potrebbe avvenire a breve a Roma dopo che la Regione ha bloccato i prelievi dal lago di Bracciano. Il piano coinvolgerà tre milioni di romani e sarà esteso anche agli edifici pubblici, inclusi gli ospedali. In fase di chiusura anche tutti i “nasoni” e le fontane.
La situazione a Bracciano appare particolarmente critica; il lago è oltre 35 cm sotto il livello minimo consentito dalle norme. Quando questo rubinetto sarà chiuso Roma si troverà in un deficit idrico senza precedenti visto che le altre fonti a disposizione non saranno in grado di sopperire all’enorme fabbisogno della metropoli.

Nonostante oggi nella capitale l’acqua sia il bene più prezioso, la dispersione nei quasi seimila km di tubature e condutture ammonta al 45% e costa in media ad ogni romano circa 95€ in più in bolletta. Negli ultimi anni gli sprechi sono addirittura aumentati: secondo Legambiente, a Roma la dispersione di acqua nelle tubature di Acea era di solo (si fa per dire) il 25% nel 2007, è salita al 35% nel 2013 e adesso è al 45%. Appare evidente che l’emergenza idrica nella capitale era già in atto ma la siccità di quest’anno non ha fatto altro che catalizzare il processo. Il timore più grande è che il taglio delle forniture, favorisca gli acquisti di acqua in bottiglia con probabili ricarichi dei prezzi al dettaglio, il tutto a discapito dei cittadini.

Ampliando l’orizzonte temporale e spaziale ci rendiamo conto che lo scenario è ugualmente apocalittico in tutti i paesi dell’Europa meridionale e che la situazione attuale non è altro che il risultato di un lento processo iniziato anni fa. La Commissione europea ha stimato che, ad oggi, almeno l’11% della popolazione europea e il 17% del suo territorio sono stati colpiti da scarsità idrica e che nel corso degli ultimi trenta anni la siccità è costata all’Europa 100 miliardi di euro. Nel 2012 l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha pubblicato un report che evidenziava un trend, partito già nel 1950, verso siccità sempre più intense e prolungate.

L’estrazione dell’acqua dal sottosuolo così come la gestione dell’acqua attraverso i bacini idrici e i continui cambi d’uso del suolo rendono molto difficile attribuire ai cambiamenti climatici la responsabilità unica per l’aumento dei periodi di siccità. È molto probabile, invece, che l’incremento del consumo di acqua possa influire sulle future siccità in maniera maggiore dell’impatto previsto dai cambiamenti climatici.

La grande siccità che ha colpito l’Europa nel 2003 avrebbe dovuto fungere da catalizzatore di azioni volte a ridurre gli impatti in tutti i settori pertinenti. Benché sulla carta la scarsità d’acqua sia considerata una minaccia per lo sviluppo sostenibile, un tema umanitario e un pilota di migrazione di massa e instabilità politica, le poche attività messe maldestramente in atto sembrano concentrarsi sulla gestione delle inondazioni mentre le misure di adattamento relative alla gestione dell’insufficienza idrica non sono ugualmente diffuse.

In un futuro prossimo l’Europa meridionale affronterà un sempre maggiore rischio di siccità e l’Italia, in particolare, subirà un progressivo inaridimento con precipitazioni che diminuiranno dal 10 al 40 %. Nell’Europa settentrionale, invece, aumenterà il rischio di eventi temporaleschi catastrofici.

Nel complesso, sperimenteremo una generale diminuzione delle precipitazioni e, cosa più importante, un cambio nella loro distribuzione, spiega Simone Mereu del CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici). A differenza di quanto avvenuto nei secolo passati le precipitazioni si stanno sempre più concentrando solo nel periodo invernale con conseguenti problemi nella gestione dell’acqua nei bacini artificiali.

Con uno sguardo globale la situazione appare ancora più critica. L’agricoltura industriale è caratterizzata da monocolture rese possibili da tecniche impattanti sul terreno e l’ambiente in generale. I ricercatori del Met Office, in Inghilterra, avvertono che le attuali politiche agricole sottovalutano notevolmente il vero rischio degli effetti dei cambiamenti climatici sull’approvvigionamento alimentare, esponendo la popolazione mondiale a potenziali carestie dovute ad un inasprimento di fenomeni quali siccità e ondate di calore. Utilizzando sofisticate simulazioni, i ricercatori hanno dimostrato che eventi climatici estremi potrebbero azzerare la produzione di cibo mondiale se solo si verificassero in diverse aree chiave contemporaneamente.
Prendendo ad esempio la coltivazione di mais, tra le più diffuse al mondo, è probabile che straordinarie ondate di calore o lunghi periodi di siccità possano colpire contemporaneamente i campi di Stati Uniti e Cina. Una carestia in questi paesi spazzerebbe via il 60% della produzione totale affamando metà della popolazione mondiale. Per le altre produzioni come riso, grano e soia che costituiscono il 51% dell’apporto calorico del mondo, qualsiasi crollo di produzione avrebbe conseguenze calamitose.

Negli anni, poi, lo scambio globale di prodotti alimentari è cresciuto a dismisura, ma la maggior parte delle analisi di scenario sul futuro del commercio del cibo su scala planetaria non tiene conto del ruolo del cambiamento climatico.

Ci ha pensato il Chatham House, i cui analisti hanno dimostrato che il commercio globale di prodotti alimentari passa per un numero ridotto di porti, stretti e strade, molti dei quali sono esposti ai crescenti rischi del cambiamento climatico. Dei veri e propri colli di bottiglia che possono letteralmente tapparsi per via di eventi meteo, conflitti o decisioni politiche, limitando l’approvvigionamento alimentare e facendo lievitare i prezzi.

 

La metà di tutti gli alimenti scambiati nei mercati internazionali passa per 14 punti, tra i quali il canale di Panama e quello di Suez, ove le infrastrutture sono inadatte a sopportare eventuali calamità naturali. Le strade del Brasile, primo esportatore mondiale di soia, sono esposte a inondazioni e frane causate dalle piogge torrenziali sempre più intense, mentre i porti statunitensi nel Golfo del Messico potrebbero subire gli impatti di un aumento del livello del mare.

Gli esperti della FAO, dopo aver studiato per anni il rapporto tra clima e sistemi alimentari, diffondono un nuovo allarme. Se il riscaldamento globale porterà scompensi sul sistema climatico che si ripercuoteranno sulla produzione agricola, altrettanto farà l’aumento della popolazione previsto per questo secolo. Maria Helena Semedo, direttore Risorse naturali della FAO, ha usato toni poco rassicuranti “La crescente minaccia del cambiamento climatico per l’approvvigionamento alimentare mondiale e le sfide per le politiche di sicurezza alimentare e la nutrizione richiedono un’azione concertata urgente”.

La direzione dei flussi commerciali sarà sempre più mono-direzionale: dalle latitudini medio-alte verso quelle medio-basse. Il Nord industrializzato venderà al Sud incapace di produrre a causa delle condizioni meteo avverse. Eventi estremi come siccità e cicloni, inoltre, potranno interrompere le catene di trasporto e di approvvigionamento, portando a fluttuazioni anche importanti del costo delle materie prime e condannando un numero maggiore di persone alla fame.

Come affrontare al meglio l’incombente emergenza?

Nelle sue conclusioni, il dossier di Chatham House esorta i governi a investire in infrastrutture resistenti ai cambiamenti climatici, ma anche a prendere altre misure precauzionali quali la diversificazione della produzione e delle scorte alimentari.

È importante che le amministrazioni locali e regionali considerino la risorsa idrica interesse di tutti. Serviranno dati ed informazioni aggiornate che prendano in considerazione le tendenze climatiche e gli eventi estremi da integrare e condividere per formulare decisioni “climate smart”. Inoltre, bisognerà fare molta attenzione alla gestione della risorsa idrica in tutte le sue fasi (prelievo, immagazzinamento, trasporto, distribuzione) e gli utenti, dai produttori ai cittadini, dovranno essere sensibilizzati per un utilizzo più sostenibile.

Sono tanti i sistemi che in Italia potrebbero già essere messi in atto. Dall’uso di “Irriframe”, il portale di irrigazione che connette in rete gli agricoltori, grazie al quale lo scorso anno si sono risparmiati ben 500.000 milioni di metri cubi d’acqua ai sistemi di irrigazione a goccia interrata, irrigazione di precisione che non provoca evaporazione. L’obiettivo più urgente rimane, comunque, la necessità di costruire nuovi bacini, soprattutto nel nord Italia.

L’Italia utilizza per agricoltura e allevamenti circa il 60% dei 56 miliardi di metri cubi annui di consumi di acqua dolce ed è al primo posto in Europa sia per i consumi di acqua per abitante, sia per la maggiore estensione agricola irrigata. Questa superficie dovrebbe dare sostentamento a circa 200 milioni di abitanti eppure il nostro paese ha un cospicuo deficit commerciale in campo alimentare.

Dove finisce, quindi, tutto il cibo prodotto dalla nostra agricoltura? La risposta è semplice: viene distrutto, perché i vincoli internazionali, primi fra tutti quelli della U.E., non ne consentono la commercializzazione.

In un periodo di sempre maggiore instabilità climatica dove a rischio è la stessa risorsa alimentare, la nostra agricoltura consuma grandi quantità d’acqua (ma anche concimi, pesticidi, carburanti) per produrre alimenti che non servono. E per fare questo si costruiscono dighe, si realizzano invasi e condutture, si cementificano i fiumi e si sottrae acqua agli usi civili.

Siamo di fronte al più grande paradosso della nostra storia.

Per approfondire:

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  1. scrubland
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