L’Evoluzione è Femmina

Uovo di tartaruga del deserto – © K. Kristina Drake USGS

L’evoluzione è femmina, e non solo nel suo significato più letterale di sostantivo femminile singolare. Questa parola racchiude il concetto della vita per come la conosciamo oggi poiché ne descrive lo svolgimento nel tempo ed il suo risultato: gli esseri viventi. Con L’Origine delle specie attraverso la selezione naturale o la conservazione delle razze favorite nella lotta per la vita, che Charles Darwin pubblicò nel 1859, cominciarono i veri studi della biologia, i cui concetti sono ancora oggi insegnati in ogni scuola.

Da allora si è fatta parecchia strada, ma restano ancora saldi molti concetti ottocenteschi. Quello che purtroppo non riesce ad essere scardinato da alcune menti, è il concetto (sbagliatissimo) che la selezione naturale favorisca gli individui più adatti a sopravvivere nell’accezione più statica, ovvero che il fine ultimo sia di vivere più a lungo degli altri conspecifici. Essendo l’evoluzione un processo chiaramente dinamico, la sopravvivenza di un individuo va letta in chiave temporale diversa, ovvero una sua sopravvivenza genetica ottenuta tramite la riproduzione. Un individuo, batterio, alga, pianta, fungo o animale che sia, può avere il patrimonio genetico più incredibile del mondo, ma se questo non riesce a riprodursi, sparirà con esso. Ciò vuol dire che l’evoluzione non seleziona i più adatti a sopravvivere, bensì i più adatti a riprodursi. La vita si è riuscita ad evolvere per almeno 4 miliardi di anni grazie alla capacità di riprodurre delle mutazioni e non tanto per il fatto di averle inventate; in questo tempo si è affinata sempre più la capacità riproduttiva che mano a mano ha contribuito a selezionare e portare avanti tutti quei caratteri utili a passare da un solo tipo di organismo vivente a ben oltre le 8,7 milioni di specie stimate oggi.

Ora vi starete chiedendo cosa centra tutto questo con la mia affermazione iniziale. Ebbene i tipi di riproduzione esistenti sono due, quella asessuata che va decisamente per la maggiore, e quella sessuata che coinvolge un numero minore di specie viventi. Se però guardiamo alla qualità delle specie che hanno scelto la più gettonata tecnica riproduttiva, ci accorgiamo che sono praticamente tutte unicellulari, ovvero forme di vita più antiche e semplici. La riproduzione sessuata, invece, coinvolge organismi pluricellulari che, a partire dalla loro prima comparsa, sono diventati sempre più grandi e complessi grazie al maggior numero di informazioni genetiche trasmissibili e, soprattutto, combinabili. Ora, indovinate quale dei due gameti investe maggiori risorse nella riproduzione? Esatto, l’ovulo. L’evoluzione ha deciso di affidare solo al gamete femminile l’onere di fornire all’embrione tutto il nutrimento di cui necessita per sopravvivere durante il tempo di auto-costruzione (le cellule si organizzano in tessuti, organi ed apparati). Maggiore è il grado di complessità di questa auto-costruzione, maggiore sarà il quantitativo di riserve necessarie a nutrire l’embrione e, quindi, l’investimento energetico della femmina. E il gamete maschile? Gli spermatozoi prodotti dal maschio non portano altro che il proprio patrimonio genetico, risultando, in termini energetici, molto poco costosi; questo ha permesso una produzione continua di gameti economici per un numero totale molto maggiore dei corrispettivi del sesso opposto. Come in ogni situazione in cui scarseggia una risorsa, comincia la competizione per averne il possesso, sia a livello microscopico tra gli spermatozoi, sia macroscopico tra gli individui.

Cigni – © BNPS.CO.UK

La scelta del miglior candidato per la riproduzione è effettuata, ovviamente, dalla femmina e prende il nome di selezione sessuale. Questo argomento fu trattato già nell’Origine delle specie, ma, al contrario della selezione naturale, fu oggetto di scetticismo e rifiuti per la mentalità retrograda di quel tempo che considerava le femmine come incapaci di effettuare discriminazioni tanto importanti. Solo di recente, con lo sviluppo di modelli matematici e di prove empiriche, questa teoria ha ricevuto ampio consenso tra i numerosi scienziati evoluzionisti. Volendo provare a schematizzare i concetti chiave, comincerei con l’analizzare ciò che ha innescato il fenomeno biologico della selezione sessuale, ovvero la competizione per il partner. Questa può essere diretta o indiretta, a seconda della tecnica adottata dal maschio, ed evolvere nel tempo grazie a mutazioni genetiche funzionali ad un maggior successo nell’accoppiamento che garantisce, quindi, la trasmissione del proprio DNA. A livello macroscopico si parla di individui che sviluppano variazioni morfologiche e/o comportamentali (aggressività, potenza muscolare, resistenza) più efficienti o, addirittura, totalmente inutili e dispendiose sul piano funzionale, ma esteticamente tanto appariscenti da attirare l’attenzione delle femmine (la famosa coda del pavone). A livello microscopico, invece, si parla di competizione spermatica che, contro ogni superficiale immaginazione, è molto combattuta e rappresenta, a tutti gli effetti, una seconda fase selettiva operata dalle femmine. Queste, per aumentare la possibilità di trovare un buon partito, possono decidere di accoppiarsi con più maschi e trasformare il proprio apparato riproduttore in un’arena di combattimento per gli spermatozoi con diversi ostacoli morfologici e chimici. La selezione sessuale a livello spermatico, quindi, ha contribuito all’evoluzione di gameti maschili sempre più efficienti, di tassi più alti di copulazione e di maggiori attenzioni post-copula da parte dei maschi delle specie poliandriche, preoccupati di essere soppiantati.

Premesso che il primo filtro evolutivo è rappresentato dalla selezione naturale, ovvero ciò che ha permesso agli individui di arrivare fino all’età riproduttiva, il secondo è incarnato dalle femmine in quanto principali protagoniste della selezione sessuale. Le femmine, quindi, oltre ad essere il motore evolutivo che promuove i cambiamenti mediante la competizione, fanno anche da giudici del miglior patrimonio genetico, ovvero quello che sarà portato avanti tramite la riproduzione.

Se tutte le mutazioni adattative dei maschi sono dovute passare al vaglio delle partner sessuali prima di poter essere tramandate alle generazioni successive, non è stato lo stesso per quelle femminili. Può sembrar comodo, ma non è stato affatto così poiché, oltre allo sproporzionatamente maggiore investimento energetico delle femmine nella riproduzione, queste sono state soggette, durante l’evoluzione, a modificazioni radicali assai più impegnative di quelle maschili.

Una banale, banalissima prova sta nel semplice elenco delle categorie tassonomiche a cui appartiene la nostra specie di Homo sapiens (apparentemente la più evoluta): organismi pluricellulari della superclasse degli Amnioti, classe dei Mammiferi e infraclasse dei Placentati. Come si è arrivati fin qui? E grazie alle mutazioni adattative di chi? È presto detto: l’evoluzione degli organismi pluricellulari è stata resa possibile dall’invenzione dell’uovo e la sua specializzazione a uovo amniotico ha permesso la conquista delle terre emerse (con animali adatti a riprodursi fuori dall’acqua); lo sviluppo delle mammelle per l’allattamento e della placenta, poi, sono importanti cambiamenti avvenuti nel solo corpo femminile ed hanno permesso di superare i drastici cambiamenti ambientali che tra il Permiano e il Cretaceo fecero estinguere oltre il 70% delle specie viventi. La femmina della nostra specie, la donna, è andata oltre queste acquisizioni anatomiche basilari e, grazie alla storia evolutiva delle proprie antenate, ha sviluppato le caratteristiche comportamentali che ci contraddistinguono: una specie sociale dotata di capacità cognitive uniche. La lenta e complessa formazione dei circuiti cerebrali, responsabili delle cure parentali e dei legami sentimentali, è la soluzione scelta dalle nostre progenitrici per assicurare la sopravvivenza della prole in un ambiente sempre più ostile.

Femmina di orango con piccolo – Borneo, Indonesia / © Katesalin Pagkaihang

Pian piano sono state selezionate le specie aventi un DNA che dava alle femmine la capacità di avere fiducia verso altre figure, prima vicine come le madri e solo poi più lontane come i conoscenti, utili a formare un gruppo sociale che collaborasse attivamente alla sopravvivenza della prole (alloparenting). È così che sono nati i legami di coppia, quelli tra familiari, amici e persino con altre specie quali gli animali da compagnia. Tutto questo sembra fantascientifico, ma non è altro che evoluzione, ovvero una serie di lente esaptazioni (caratteri che, opportunisticamente, possono cambiare funzione) che, in tempi lunghissimi, si sono rivelate adatte alla sopravvivenza nel suo significato più ampio.

 

Per approfondire:

Libri:

  • B. Tadolini, L’evoluzione al femminile
  • D. Morris, L’animale donna
  • C. Darwin, L’origine delle specie 

Altre fonti:

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  1. Luisa Vicinelli
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