Giganti selvatici tra i fiori di primavera

Parco Nazionale delle Dolomiti bellunesi – © dolomitiunesco.info

La neve quest’anno sembra voler abbandonare i prati a fatica. Qualche nevicata di marzo vuol prolungare l’inverno, ma senza successo. Il calore del sole primaverile si fa sentire e ogni cristallo di neve si dissolve velocemente sul prato senza lasciare traccia. La natura segue il suo ciclo e vivendo in montagna si ha la netta percezione del cambiamento di stagione.

In città l’arrivo della primavera è scandito da eventi come il Salone del Mobile, il Salone del Libro, la Fiera dei Cosmetici e quant’altro; nel contempo tra i pochi spazi verdi in città qualche timida margherita tenta di sbucare accanto al cemento, e ci riesce, la forza della natura si rivela sempre con potenza incredibile. Persone dotate di pollice verde, come mia mamma, fanno rivivere con passione e dedizione i grigi balconi di Milano, risvegliando ogni più piccola pianticella stordita dallo smog invernale e trasformando piccole porzioni di verde in quadri impressionisti dove la moltitudine di fiori sembra volersi riappropriare del territorio perso. Ma è tra le montagne che i colori dei fiori e le forme degli alberi plasmano la nuova stagione. I larici a fatica si svegliano dal torpore invernale accogliendo le prime foglie che, sotto forma di aghi color verde brillante, restituiscono una chioma folta e avvolgente ai rami scheletrici dell’inverno. La mia stagione lavorativa è appena terminata e, per quanto il Salone del Mobile sia ricco di eventi invitanti, ritardo il più possibile il ritorno in città e mi godo il passaggio graduale da inverno a primavera nella baita del bosco.

Proprio come i panni stesi sul balcone, anche l’erba ha bisogno di asciugarsi; deve crescere e avere il tempo di assorbire il primo calore del sole primaverile per diventare protagonista del primo taglio del fieno a fine primavera. L’importanza del primo fieno raccolto è tale da meritare il nome di maggengo, perché normalmente raccolto in maggio, ed è il migliore. In seguito viene conservato nei fienili e trasportato a valle in inverno. Il secondo taglio detto agostano verrà effettuato in agosto, mentre il fieno di terzo taglio, settembrino, è quello con qualità nutritive inferiori. Il primo fieno è il più prezioso grazie all’elevato tenore di cellulosa grezza, all’alto contenuto proteico e calorico rispetto ad altri foraggi. Verso la fine della primavera avverrà la fienagione, una pratica colturale che permettendo la trasformazione di erba fresca in erba secca, consente la perdita di umidità presente negli steli erbosi, seccandoli e riducendoli in fieno. Una volta raccolto, il fieno verrà immagazzinato e usato come nutrimento per mucche e cavalli.

Asportato dal prato e importato nella stalla, senza comportare alcun dazio. Almeno su queste montagne Mr. Trump non riuscirà a imporsi: produzione e consumo, tutto nell’ambito dello stesso prato.

Qui dove sembra che il tempo si sia fermato vige ancora la parola fatica per procurare il cibo agli animali e non serve ricorrere con un clic ad un ordine su Amazon, almeno per il momento. I contadini trascorrono intere giornate prodigandosi in una delle pratiche agricole più antiche.

In una breve pausa dal lavoro mi trovo in quella che considero la mia casa, una baita trasformata in agriturismo in mezzo al bosco, a Sesto Pusteria in Alto Adige. Il bucato steso all’aria mi ha sempre comunicato una grande vitalità. Tinte diverse per lenzuola, asciugamani, stracci da cucina esprimono un grande fermento. A tanti colori variopinti corrispondono le sfumature dei fiori che cominciano a spuntare sui prati. Il profumo della legna bruciata che scoppietta nella stufa è ancora intriso nei miei vestiti. Nonostante le temperature non risentano più del rigore invernale, permane il bisogno di calore dentro casa, necessario per rendere accogliente la Stube: è qui che ci si ritrova per il pranzo e qui si inizia ad avvertire la freschezza primaverile che dopo il gelo invernale tenta con timidezza di entrare attraverso gli spifferi della finestra.

© Chiara Baù

Un quadro raffigurante un prato colmo di fiori, appeso alla parete della mia stanza, rispecchia lo scenario all’esterno. Pittura e natura si interscambiano simultaneamente creando bellezza.

Il quadro riproduce il crocus vernus o falso zafferano per la somiglianza con il crocus sativus, alla cui bellezza concorrono i vistosi stigmi di arancio scarlatto che, colti uno ad uno da mani pazienti e poi essiccati, danno origine alla spezia preziosa dello zafferano maggiore.

È questa una pianta erbacea, perenne, appartenente alla famiglia delle Iridaceae, tipica per la precoce fioritura primaverile. Il nome generico del crocus deriva dal greco Kròkos, che significa filo di tessuto e richiama i lunghi stigmi ben visibili.

Con delicatezza il bianco dei crocus si alterna con un lilla incantevole ed è un’infinita sfilata sui prati. La creatività della nuova stagione esplode ed ha la meglio sul manto nevoso che generosamente ha accudito i germogli silenti di questo fiore durante tutto l’inverno.

Pian piano il lenzuolo bianco diventa un ricordo, visibile solo sulle cime delle montagne.

La forma biologica è geofita bulbosa, ossia pianta erbacea perenne che porta le gemme in posizione sotterranea. Durante la stagione avversa non presenta organi aerei e le gemme si trovano in organi sotterranei chiamati bulbi che altro non sono che organi di riserva atti a produrre annualmente nuovi fusti, foglie e fiori.

I crocus non temono il gelo, visto che la gran parte riesce a fiorire anche durante le ultime nevicate di febbraio, ma nemmeno il caldo estivo quando in genere sono in completo riposo vegetativo.

Con ammirazione assisto a una magia di colori dove i fiori sembrano voler evadere dal lungo inverno. L’immaginazione diventa protagonista.

Questo fiore aveva già impressionato Omero e lo troviamo citato nell’Iliade, libro XIV, versetto 347.

Anche Giovanni Pascoli gli rende omaggio in una poesia dal titolo “Il Croco” in cui lo descrive come il poeta dei prati: “O pallido croco, nel vaso d´argilla, ch è bello, e non l´ami, coi petali lilla tu chiudi gli stami di fuoco: le miche di fuoco coi lunghi tuoi petali chiudi nel cuore tu leso, o poeta dei pascoli, fiore di croco! Vuoi l´acqua di polla ravvivi, o viole, non chi la sua zolla rivuole!”

Il crocus che simboleggia l’anima del poeta non ama la casa d’argilla, è stato raccolto e incomincia a perire, desiderando soltanto di ritornare nella sua zolla originaria. Chi non lo vorrebbe? La macchia di colore di questi fiori è tale che un singolo fiore non avrebbe senso, sarebbe come un passero solitario triste in un angolo nascosto. Solo tutti insieme hanno ragione di esistere.

L’unica ambizione di questi minuscoli fiori è quella di essere indiscussi protagonisti dei prati in quel breve lasso di tempo che intercorre tra lo scioglimento delle nevi e la nascita dei primi timidi fili d’erba per lasciare poi il testimone a margherite, rododendri e ranuncoli.

Crocus – © Ykt.Ru

Ma il crocus non è l´unico messaggero di primavera.

Tutte le favole tradizionali iniziano con “C’era una volta”. Eppure esistono storie in cui i protagonisti non vengono emarginati dal tempo per poi sparire e, anche se appartenenti ad un mondo semifantastico e leggendario, sopravvivono tramandati dalla tradizione orale che sfida il tempo e il progresso tecnologico del web.

Oggigiorno le cronache divulgano eventi talmente brutali da sembrare surreali, ma che purtroppo rispecchiano perfettamente la realtà. Per contro esistono eventi capaci di trasmettere positività e speranza tramite creature buone e propiziatorie, anche se sconfinanti nella fantasia popolare.

Proprio a questo proposito mi capita di venire a conoscenza di una tradizione culturale molto sentita che si tramanda in un villaggio vicino. Da sempre l’universo alpino è lo scenario di fantastiche leggende trasmesse da secoli, che costituiscono il prezioso bagaglio culturale di piccoli agglomerati montani.

L’immaginazione e un pizzico di realtà sono gli ingredienti alla base di tante storie e leggende che ricche di profondi significati e antiche tradizioni sono degne di essere raccontate.

Come nel caso di Rivamonte Agordino, un piccolo paese di 625 abitanti, situato nel cuore del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, in Veneto. La quasi totalità degli abitanti è occupata presso la Luxottica, che procura lavoro anche a numerosi paesi limitrofi.

Un paese dove una stalla sociale che produce formaggio e burro di nicchia ha un ruolo fondamentale nell’attività quotidiana, un luogo dove i bambini bevono il latte che proviene dalla mungitura delle mucche senza dover fantasticare su mucche color viola come quelle raffigurate nelle confezioni di note marche di cioccolato.

Il territorio viene pulito in modo minuzioso e accurato per impedire che il bosco prenda il sopravvento. Gli abitanti manifestano un appassionato legame col territorio ed hanno costituito l’Associazione Club per l’Unesco di Rivamonte Agordino con lo scopo di riscoprire i vecchi mestieri che stanno scomparendo e mantenere le vecchie tradizioni.

In questo angolo di Dolomiti si tramanda da secoli una figura mitologica celebrata quasi ogni anno nella festa che preannuncia l’arrivo della Primavera: la festa dell’Òm Salvárech, un leggendario personaggio diffuso nel bellunese che si presenta come una creatura vestita di verde che vive solitaria nei boschi.

La curiosità mi spinge ad approfondire la leggenda e vengo così a conoscere una persona di un’umiltà esemplare, con una grande passione per il proprio paese. Inizia un rapporto epistolare con Giuliano Laveder, 68 anni, abitante di Rivamonte Agordino, che dopo aver lavorato come postino per 39 anni, è ora assessore del Comune ed organizza gite ed escursioni da far invidia all´Alpitour, tante sono le numerose iniziative da lui proposte. Con orgoglio mi racconta la leggenda dell´Òm Salvárech, l’uomo selvatico presente nei boschi.

C’era una volta e c’è tuttora, così inizia il racconto.

Le origini di questa leggendaria figura si perdono nel tempo, il primo documento scritto risale al 1800, ma la tradizione orale riporta ad un luogo di origine molto più antico: un sito minerario di Valle Imperina, non lontano da Rivamonte, un tempo molto importante, in quanto vi estraevano la pirite cuprifera fin dal 1400. Si tratta di un insediamento di interesse storico, legato allo sfruttamento di questo minerale.

Qui prima che arrivasse l’uomo coi suoi picconi viveva e forse ancora ci vive l’Òm Salvárech.

Inizio a tempestare di domande Giuliano che con pazienza e dedizione esaudisce ogni mia richiesta, innanzitutto raccomandando di porre la massima attenzione al nome di questo abitante dei boschi, Om, rigorosamente maiuscolo e con l’accento posizionato in modo corretto.

Sembra che quest’uomo vivesse in tempi lontani tra i boschi del Monte Armarolo, in una piccola caverna nascosta, non lontano dal paese.

Gli animali e le piante dei boschi erano i suoi soli amici. L’unico vestito che indossava era costituito da lunghi fusti striscianti di licopodio, un muschio che cresce in alta quota, solo in luoghi precisi, e spesso impervi. Come tutte le figure mitologiche, era spesso al centro dei discorsi degli abitanti del villaggio che nelle lunghe serate invernali si riunivano accanto al camino per dissertare del tempo, delle stagioni, del raccolto del fieno, delle mucche. Nessuno in realtà l’aveva mai visto, ma la sua presenza non era mai stata messa in discussione.

Ci si chiedeva quali sembianze potesse avere, addirittura si pensava che fosse invisibile, finché un giorno di primavera, mentre i primi raggi di sole asciugavano la rugiada, comparve improvvisamente.

Era mattino inoltrato ed un vecchio contadino era intento a pulire il latte con le proprie mani per toglierne le impurità dopo la mungitura. Abitava in una casera ai limiti del bosco e per casera s’intende una stalla a due vani, dove il primo vano è adibito a vera e propria stalla, il secondo vano è provvisto di focolare e tavolo, mentre al piano superiore si trova il fienile con un letto costituito da uno smunto materasso imbottito di fieno o foglie secche. La casera viene usata come abitazione per accudire le mucche durante la fienagione o il taglio della legna nei boschi.

Improvvisamente il cielo divenne cupo e si scatenò un violento temporale. La porta della cucina si aprì pian piano con uno stridente cigolio tipico delle porte di campagna.

Sulla soglia apparve, inzuppato e intirizzito, l’uomo selvatico vestito di licopodio. Entrò in silenzio andandosi a sedere accanto al fuoco. Il vecchio lo guardò, senza chiedergli chi fosse, o da dove venisse. 

Rimasero a lungo in silenzio, l’uno accanto all’altro, finchè il temporale cessò ed il sole tornò a splendere illuminando le prime ombre della sera. L’uomo vestito di licopodio senza dire alcuna parola uscì dalla casera, ma ritornò poco dopo. Con stupore aveva notato che mentre il vecchio contadino mungeva la mucca, nel vaso di raccolta finivano varie impurità, fieno, insetti, foglie e altro che venivano rimossi dal vecchio con le mani. Si era allora strappato dei pezzi dell’abbigliamento di licopodio, aveva afferrato un imbuto di legno riempiendo con il licopodio il foro di ingresso così che fungesse da filtro. In tal modo versando il latte nell’imbuto le impurità restavano intrappolate nel licopodio ed il latte fuoriusciva nel secchio filtrato e pulito. Rivelato questo accorgimento segreto, l’Òm Salvárech fece finalmente udire la sua voce, dimostrando al vecchio la sua riconoscenza per l’ospitalità ricevuta durante il temporale. Da quel momento in poi l’uomo vestito di muschio verde usciva ogni anno a primavera dal bosco per incontrare gli abitanti del paese che lo accoglievano con gioia e grandi festeggiamenti.

Non potendo conoscerne l’identità, gli attribuirono l’epiteto di Òm Salvárech che in dialetto agordino significa uomo selvaggio. Un giorno però non comparve più e svanì nel mistero che lo avvolgeva. Ma la gente del paese crede tuttora alla sua esistenza, convinta che con vigile sguardo continui ad osservare nascosto nel bosco ognuno di loro.

Ancora oggi nel mese di Aprile viene rievocato l’Òm Salvárech che tra sacralità e tradizione esce dai boschi di Rivamonte, vestito di licopodio ed è un figurante ad interpretarlo con convinzione ed entusiasmo.

Molti sono i volontari impegnati a raccogliere, in più giornate, i lunghi steli verdi che, intessuti e intrecciati con tecnica e accuratezza particolare, servono a confezionare l’abito di muschio verde, un abito che composto da masse di licopodio risulterà comunque molto pesante per colui che lo indosserà, che dovrà essere piuttosto prestante e robusto.

Due o tre donne in un fienile vicino al paese lo aiutano nella vestizione, che richiede parecchio tempo, e nessuno a parte il gruppo ristretto dovrà sapere chi sarà il predestinato.

Forse neanche per i balli di corte a Versailles le cortigiane impiegavano tanto tempo ad agghindarsi con i loro abiti sontuosi.

Una volta terminata la vestizione, l’uomo selvatico si incammina verso il paese preceduto da due suonatori che eseguendo una lenta melodia, uno con la fisarmonica e l’altro con il clarinetto, lo accompagnano fin nella piazza centrale.

Raggiunto il centro del villaggio l’uomo selvatico viene accolto con entusiasmo da tutti gli abitanti del paese che lo acclamano con gioia come propiziatore della primavera.

© Giuliano Laveder

Con la sua statura imponente da il via alle danze e alla festa invitando le giovani donne al ballo. Tiene in mano un lungo ramo di betulla e per propiziare la fertilità appoggia lo stelo sulle giovani spose che grazie a questo atto simbolico, si dice, diverranno mamme.

Al ballo si uniscono anche tutti gli abitanti del paese che danzando con allegria gli fanno cerchio intorno. I bambini rimangono intimoriti da questa imponente figura, mentre i più grandicelli lo ammirano e lo sentono loro amico, come se ballassero con un pupazzo di neve.

Festeggiarlo è una sorta di ringraziamento da parte di tutto il paese per aver rivelato l’espediente utile a pulire il latte, consentendo in tal modo di produrre derivati caseari di qualità, necessari alla vita della popolazione.

A fine giornata, senza essere seguito da nessuno, l’uomo selvatico si allontana e ritorna solitario nel bosco.

Organizzatori della rievocazione di questo custode e patrono del mondo vegetale sono due enti locali: il Club Unesco di Rivamonte e la Cooperativa Sociale Mani Intrecciate che programmano anche visite guidate ai forni fusori dell’antica miniera.

Giuliano non ha mai indossato il vestito di muschio verde, ma per sentito dire dai suoi compaesani racconta che si avverte una sensazione particolare, quella di immedesimarsi in un personaggio di grande saggezza e cultura. Pur sapendo che si tratta di un travestimento, i figuranti prescelti prendono molto sul serio questa tradizione, quasi bisognosi di un vero e proprio incontro con l’Òm Salvárech. In un’era in cui l’automazione è ampiamente diffusa, dai trasporti, ai supermercati, ai caselli autostradali, a Rivamonte sopravvive grazie a quest’uomo di ignota provenienza un calore umano diffuso, un valore spesso trascurato, ma che considero un caposaldo fondamentale della società.

Una figura leggendaria vista soprattutto come un eroe culturale, un personaggio estremamente positivo che, per quanto viva appartato in completa solitudine, ha lui stesso la necessità di un contatto con gli abitanti del luogo. Anche Aristotele sosteneva che l’uomo è un animale sociale e forse anche l’Òm Salvárech, per quanto selvaggio e solitario, sente il bisogno di vivere in compagnia degli abitanti di Rivamonte almeno un giorno all’anno.

Probabilmente a fine maggio si terrà uno storico incontro tra il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong per arrivare a un accordo sulla denuclearizzazione.

Certamente l’incontro de l’Òm Salvárech con la gente del villaggio non ha la stessa importanza, ma sono convinta che per ogni abitante di Rivamonte Agordino l’appuntamento a primavera con questa figura simboleggi una realtà che a volte il mondo sembra aver messo da parte e che invece è il substrato fondamentale per un profondo rispetto della natura e della conoscenza umana.

La festa non viene proposta tutti gli anni, perché il confezionamento dell’abito richiede molto lavoro e soprattutto necessita di un’autorizzazione da parte della Regione Veneto, essendo il licopodio una pianta protetta e difficile da trovare. Il licopodio o “Erba strega” (Lycopodium clavatum) viene anche chiamato Muschio clavate. Questa pianta sempreverde simile ad un muschio strisciante sulla terra con tralci lunghi da uno a due metri e radici sottilissime, è una felce dell’ordine primitivo delle Lycopodiales, che dominavano la Terra nel Carbonifero. Il suo fusto ramificato e strisciante, attorniato da foglioline aghiformi, ricorda un folto muschio piuttosto che una similarità con le felci. Lycopodium, significa piede di lupo e deriva dalla presunta somiglianza delle porzioni terminali dei fusti con le pelose zampe di questo animale.

Il termine clavatum deriva invece dalla forma delle spighe che portano gli sporangi, prodotte in estate a gruppetti di 2-3 sulla sommità dei fusti, forma che ricorda quella di una clava.

La pianta contiene radio e la si distingue facilmente dagli altri muschi per i lunghi tralci simili a corde e per il polline giallo dei suoi coni. Cresce unicamente nei boschi ad alto fusto e su terreni boschivi disposti verso Nord a partire da un’altezza di 600 m.

Il nome di “Erba strega” è dovuto alla polvere delle spore che gettata nel fuoco produce fiammate variopinte per il contenuto di zolfo e manganese. In passato era utilizzata anche in pirotecnica per la facile accendibilitá.

© Giugliano Laveder

Giuliano ci tiene a farmi sapere che la storia dell’Òm de Salvárech è talmente sentita che lui stesso viene invitato nelle scuole elementari per raccontarla ai bambini.

L’uomo selvatico rappresenta la personificazione della natura, risultato di un processo culturale lunghissimo che ha visto una progressiva antropomorfizzazione dell’ambiente naturale.

Non a caso questa figura mitica si mostra con sembianze umane, ma fortemente marcate da elementi figurativi distintivi dell’ambiente circostante, di cui diventa al contempo espressione e testimonianza dell’integrazione dell’uomo col suo tempo.

Mi congedo da Giuliano e torno alla mia baita, incantata da questa leggenda e con la promessa di ricevere un invito alla festa per incontrare l’Òm Salvárech la prossima primavera.

Senza aspettare quel momento Giuliano mi suggerisce di visitare l’antico sito minerario che si estende su buona parte del territorio comunale di Rivamonte e che comprende tra gli antichi edifici un proprio Centro Visitatori. All’interno della struttura che a inizio Novecento costituiva la centrale idroelettrica a servizio delle miniere e del villaggio minerario è stato realizzato un museo dedicato agli uomini che hanno abitato la valle, minatori e seggiolai. Un tempo infatti gli abitanti di Rivamonte erano minatori oppure facevano i seggiolai e costruivano sedie che vendevano in quasi tutta Italia, esportandole perfino in Francia. Una particolare sezione del museo è dedicata ad illustrare in dimensioni reali la figura leggendaria dell’Òm Salvárech.

Pensandoci, preferisco aspettare la prossima primavera e godermi la festa dal vivo, ballando direttamente con l’uomo selvatico.

Appena rientrata mi sento chiamare da Klaus, il contadino proprietario della baita, che mi assegna un compito delicato.

Un puledro ha bisogno di essere allattato artificialmente in quanto la madre è morta durante il parto. Entrare nella stalla significa respirare un aroma pregnante di fiori ed erbe. Mi gusto quel profumo inebriante del fieno immagazzinato l’anno precedente, una vera e propria immersione aromatica tant’è che anche i vestiti e i capelli assorbono e si appropriano di odori e profumi.

Con un po’ di timore mi cimento a dare il latte al piccolo puledro, che affamato succhia con gusto dal biberon. Forse dietro la baita l’Òm Salvárech mi sta osservando chiedendosi se il latte sia stato ripulito secondo i suoi preziosi insegnamenti.

Mentre mi sento spiata, godo di questo momento di felicità, in simbiosi con il piccolo puledro e fantastico nuovi incontri leggendari o vissuti, preziosi come sempre per l’autenticità e i valori che mi possono nuovamente insegnare.

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