Le mitiche piante inebrianti
Tutti i vegetali che risultano avere proprietà psicoattive per l’uomo sono detti inebrianti. In tutte le forme possibili, erbe, arbusti o alberi che siano, si tratta di un numero di specie molto elevato e ben distribuito nel mondo. Presenti in tutti i continenti, i vegetali psicoattivi sono utilizzati dall’uomo sin dal periodo neolitico e, forse, addirittura da quello paleolitico, ovvero l’Età della Pietra. Persino oggi scommetto che ognuno di voi fa uso di almeno tre delle cinque piante inebrianti più diffuse. La maggior parte di noi le conosce per il gusto, gli impieghi o l’aspetto, qualcuno sa che i loro effetti possono, direttamente o indirettamente, essere stimolanti, inebrianti, narcotici, sedativi o allucinogeni; ma sono davvero poche le persone che conoscono la storia, il mito, che si cela dietro ognuno di questi vegetali psicoattivi.
Il Caffè è forse la droga psicoattiva più diffusa al mondo. Si definisce droga poiché contiene la caffeina, un alcaloide di natura stimolante che dà assuefazione. La scoperta di questa pianta e delle sue proprietà risulta relativamente recente rispetto ad altre, la sua coltivazione più antica, infatti, è attestata al 575 d.C. Da allora si narrano molte storie, tutte con una base comune, secondo cui è stato un pastore dello Yemen di nome Kaldi che, grazie alle sue capre, ha identificato per primo le proprietà stimolanti del caffè. Notando strani comportamenti di eccitazione nel suo gregge, Kaldi cominciò ad osservare con maggiore attenzione i suoi animali e scoprì che brucavano una strana pianta, mai vista prima. La curiosità lo spinse a provare personalmente le bacche rosse e brillanti di questo arbusto dalle foglie di un verde lucente; rimasto subito esaltato ed affascinato dal suo effetto, ne portò una manciata ad un santone islamico in un monastero. Il religioso, però, non ne volle sapere nulla e, senza esitazione, scaraventò i frutti nel camino, condannandone l’uso. Il forte aroma che vi si sprigionò indusse i due a recuperare i chicchi abbrustoliti dalle braci e, dopo averli sbriciolati, a scioglierli in acqua per ricavarne quella che fu la prima tazza di caffè.
Se non è dal caffè che la mattina cercate energie extra, siete probabilmente del fan club del Tè. Questa pianta, la Camellia sinensis, contiene l’alcaloide teina ed è anch’essa originaria del Vecchio Mondo, ma è molto più antica del caffè poiché ci sono testimonianze di sue piantagioni nella costa orientale della Cina risalenti al 4000 a.C. La più antica leggenda cinese fa riferimento alle origini della pianta del tè e del suo impiego in un contesto religioso di preghiera, poiché facilita lo stato di veglia. Questa volta il protagonista della storia è Durma, capo e predicatore di una importante religione dell’Asia orientale, terzo figlio del re indiano Kosjuwo. La sua vita era fatta di costanti sacrifici e restrizioni, totalmente dedicata alla preghiera, anche di notte. Dopo molti anni le forze di Durma si esaurirono ed egli cedette al sonno; al suo risveglio la mortificazione e il pentimento del suo gesto lo indussero a tagliarsi le palpebre, complici del suo peccato di debolezza, e a gettarle via. Il giorno successivo, in quello stesso punto, egli si accorse che era miracolosamente cresciuta una pianta, l’arbusto del tè. Dopo averne gustato le foglioline provò una sensazione di vivacità e sentì nuove forze fluire in lui per poter continuare a pregare senza più interruzioni. La sua veloce diffusione è stata associata al massiccio impiego di questa pianta da parte di ogni discepolo devoto alla religione di Durma.
Analizzando i due alcoloidi, caffeina e teina, si è visto che, chimicamente parlando, si tratta della medesima molecola. Da un punto di vista botanico, però, gli arbusti in grado di produrre la caffeina sono due, Coffea arabica e Coffea canephora (o C. robusta), entrambi della famiglia delle Rubiaceae; a produrre la teina è, invece, la sola specie Camellia sinensis. Cosa cambia, quindi? Il complesso di sostanze accessorie delle diverse piante è in grado di differenziare notevolmente l’effetto conseguente all’assunzione di caffè o tè. Mentre la caffeina è assorbita immediatamente dall’organismo, stimolando con un picco breve e intenso il sistema nervoso e cardiovascolare, la teina ha un’azione più lenta e prolungata che favorisce l’attività cerebrale senza eccitazione. Detto ciò provate a rileggere le due storie e notate come queste diverse proprietà erano già note ai tempi della narrazione. Kaldi scopre un sorprendente ed immediato effetto eccitante, al contrario di Durma che prova sensazioni vivaci, ma pacate che gli consentono lunghe veglie per meditare e pregare.
Passiamo ora ad altre bevande, quelle dei pasti principali e delle occasioni speciali, le cui proprietà inebrianti sono dovute a specifiche elaborazioni di piante altrimenti comuni. Esatto, sto parlando di fonti alcoliche. Tra il 9000 e l’8000 a.C. l’uomo della Transcaucasia, dopo aver appreso le proprietà del vino ricavato da una pianta selvatica, la Vite, ha cominciato il processo di domesticazione per ottenere la Vitis vinifera vinifera (sottospecie della sylvestris). La mitologia è piena di storie riguardanti la prima scoperta di questa bevanda inebriante, ottenuta dalla fermentazione dei frutti della Vite. Tra le mie preferite vi è un’antica leggenda persiana che descrive l’avvenimento come fortuito, poiché verificatosi a seguito di un tentativo di suicidio per avvelenamento. Il veleno in questione era proprio il vino, considerato tale in quanto residuo fermentato di una vecchia scorta di una pregiata uva estiva richiesta dal re Jamshid. La giara, etichettata con la scritta veleno, rimase nascosta nel magazzino reale finché un’ancella, disperata per la sua emicrania, la trovò e ne bevve il contenuto per liberarsi definitivamente dal suo dolore. La ragazza si risvegliò da un lungo sonno totalmente guarita e, sorpresa dell’avvenimento, raccontò tutto al re. Da quel momento sovrano e cortigiani cominciarono a bere spesso la nuova bevanda che fu chiamata shah daroo (vino reale) o, ancora oggi, zeher–i-khoosh, cioè il “veleno piacevole”.
Un’altra bevanda alcolica molto diffusa ed apprezzata dall’uomo è la birra, ottenuta dalla fermentazione della pianta d’Orzo. La trasformazione di questo cereale in malto, e quindi birra, è alquanto complessa e richiede diversi passaggi, dalla germogliazione all’essiccazione e la tostatura. Eppure le prime testimonianze della produzione di birra risalgono al IV secolo a.C., localizzate nell’attuale Iran ed Egitto. Come facevano? Con un’altra tecnica, quella dello sputo. Sembra strano, ma sono tante le bevande a base di cereali che un tempo venivano prodotte grazie alla saliva poiché quest’ultima, contenendo ptialina, risulta un ottimo induttore di fermentazione o produzione alcolica. Tornando alla birra d’orzo, ci sono fonti risalenti al I millennio a.C. che sono state utilizzate da Lönnrot per redigere il Kalevala, poema epico finlandese contenente, nel Runo XX, il Canto della Birra. Qui si può leggere dei primi tentativi degli Dei di preparare la nuova bevanda a base di orzo, luppolo, acqua e fuoco. Era Osmotar, divinità femminile della birra, a tentare di trovare i giusti ingredienti utili ad indurre la produzione alcolica; dopo svariati fallimenti, aggiunse la bava di un orso ed il miele delle api per vedere finalmente la miscela fermentare a tal punto da traboccare dal contenitore. Non è un caso che ci sia una relazione etimologica tra i termini tedeschi Bier (birra) e Bär (orso), così come Bjorr, l’antico nome nordico che indica sia la birra che l’orso.
La droga derivante dalla quinta pianta inebriante più utilizzata, al contrario delle prime, viene assunta per via aerea e non bevuta. Sto parlando del Tabacco, originario delle Americhe e prodotto da due specie vegetali, la Nicotiana tabacum e la Nicotiana rustica, appartenenti alla famiglia delle Solanaceae. Il suo impiego voluttuario è oggi ampiamente diffuso in tutto il mondo, ma ogni tribù nativa americana ne rivendica l’appartenenza geografica, tramandando miti d’origine divina o sovrannaturale. L’elevato contenuto di alcaloidi nicotinici induce, in funzione del dosaggio, effetti psicoattivi o tossici nelle persone che ne fanno uso (vedi articolo https://www.imperialbulldog.com/2016/03/27/e-la-dose-che-fa-il-veleno-piante-tossiche-e-loro-impieghi/ ). Ho deciso di parlarvi del mito che va per la maggiore, ovvero quello che associa il tabacco al colibrì, piccolo uccello che nidifica nella pianta e ne è il principale impollinatore. Secondo la leggenda, esisteva un tempo in cui uomini ed animali erano simili e dipendevano tutti da un’unica pianta di tabacco. Dopo che le oche Dagul-ku la rubarono, la gente cominciò a soffrire tanto da rimanere in bilico tra la vita e la morte. Diversi animali tentarono di recuperare il tabacco, ma tutti fallirono; quando si fece avanti il Colibrì, piccolo e velocissimo eroe, l’impresa riuscì e i moribondi furono salvati con un soffio di fumo di tabacco nelle narici. Una storia che rende bene l’idea dell’effetto di dipendenza che, allora come oggi, è causato dalla nicotina.
Purtroppo non posso dilungarmi ancora, ma, nel caso in cui qualcuno non fosse arrivato a quota tre droghe giornaliere, sappiate che le noci di Cola, la Canapa e il Guaranà sono considerate droghe al pari delle prime cinque. Quanti di voi bevono la Coca Cola o la Redbull? E quanti fumano o mangiano Canapa?
D’ora in poi, quando farete uso di queste piante inebrianti, pensate a come sono entrate a far parte della vita dell’uomo e ricordate che dietro ogni leggenda si nasconde un fondo di verità.
Per approfondire:
- Mitologia delle piante inebrianti, di Giorgio Samorini.
molto interessante, ci è piaciuto molto questo testo complimenti
Grazie mille…