Phi-Phi e Boracay – il dilemma di ambiente e turismo

Phi Phi Island – Thailandia

Nel 1990, anno più anni meno, le isole Phi Phi erano dei piccoli gioielli sconosciuti, proposti per lo più da agenzie bugigattolo o da barcaioli dell’isola di Phuket. La stessa Krabi, ai tempi, aveva un’urbanistica da palafitta. Un marinaio ti portava a Phi Phi Leh per una cifra che ti mettevi a ridere a raccontarlo in Europa. In circa duecento metri di sabbia bianca, a Maya Bay, ci trovavi al massimo venti persone.

Nel 2003, a bordo di una barca diving, passai davanti a quei profili alti sul mare, come di coni smussati. Silvia, che lavorava per quel centro subacqueo mi disse di non andare a Phi Phi Leh, anzi mi disse: scordatelo. Da quando ci hanno girato il film è diventata irriconoscibile, la  spiaggia piena, gente arrampicata sulle rocce. Quale film? domando io. The Beach, mi fa lei, quello con Di Caprio. Seguii il consiglio. Decisi di lasciare il ricordo com’era.

Phi Phi Island- Thailandia

A giugno di quest’anno le autorità locali hanno chiuso Maya Bay fino a tempo indeterminato per i danni ambientali arrecati dal turismo. Quella fantastica spiaggia, con una lingua di sabbia bianca circondata da rocce e vegetazione, era arrivata a riempirsi di 5000 turisti e di 200 barche al giorno. Non ho mai visto il film, The Beach, ma so che parla di un gruppo di naufraghi su un’isola deserta. So che è un film pervaso da un senso di solitudine addirittura inquietante. Che senso ha andare su quella precisa spiaggia per ritrovarsi in una densità da stadio, o da metropolitana?

Phi Phi Island- Thailandia

Le autorità lamentano danni estesi causati da barche, rifiuti e creme solari. Oltre l’80% del corallo attorno a Maya Bay è andato distrutto. Non si contano i danni alla vegetazione. I killer dei coralli super indiziati sono le creme solari. Ne avevo sentito parlare nel 1995, in un seminario sull’ambiente marino in Messico. Ma è solo da qualche anno che se ne parla in modo più ampio, anche se certe notizie le leggono solo poche persone. A quanto pare soltanto le Hawaii sono riuscite ad applicare un bando totale che entrerà in vigore nei prossimi anni. La sensibilizzazione del consumatore e dei fabbricanti è rimasta a poco più di zero.

Phi Phi Island- Thailandia

“Ok, chiudono una spiaggia bellissima e famosa, peccato. È proprio vero, siamo troppi, il turismo rovina”

Le cose non stanno esattamente così, mi riferisco all’ultima affermazione. La notizia finalmente guadagna molte heads, cioè gli articoli che vedi aprendo la prima pagina, di un giornale quanto di un portale web. Curiosamente, ma non troppo, questa notizia fa seguito a un fatto identico avvenuto a 3000 km di distanza.

L’altra chiusura, clamorosa, era avvenuta due mesi prima nelle Filippine. Boracay, la party beach altrettanto famosa nel mondo ma ben più estesa, circa cinque chilometri, era stata chiusa per decreto presidenziale. Il  presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, in linea coi suoi modi ‘molto spicci’ aveva definito l’isola di Boracay una latrina. Sulla spiaggia in  questione insistevano ristoranti, chioschi, piccoli alberghi, capanne e bancarelle. Duterte, per salvare l’isola (e i suoi introiti) ha messo in campo i bulldozer per spianare tutto ciò che esisteva entro i trenta metri dal mare ed ha promesso investimenti e miglioramenti della rete fognaria. Più qualche bizzarro divieto, come quello di fumare o consumare alcolici in spiaggia.

Boracay beach- Philippines

È di poco fa la notizia della riapertura di Boracay. Ma l’unica novità di rilievo è il numero contingentato dei turisti, con un tetto massimo di 19.200 ospiti presenti contemporaneamente sull’isola. Poco meno della metà del flusso registrato normalmente. Nel frattempo sono stati vietati anche tutti gli sport acquatici, comprese le immersioni subacquee, in attesa dei risultati sullo stato dei coralli e della qualità delle acque.

Boracay con le sue 500 attività commerciali e ben 2 milioni di visitatori, è assai più remunerativa di Maya Bay: nell’anno precedente ha incassato circa 1 miliardo di dollari. Maya Bay rendeva ‘solo’ 13 milioni. La riapertura di Boracay, insieme all’annuncio di fumosi piani di graduale ristrutturazione, lascia perplesso più di qualche ambientalista. Più facile la scelta di mantenere chiusa Maya Bay, su un’isola disabitata e priva di strutture fisse.

Due pesi e due misure. Ma anche due tipi d’impatto diversi: Boracay il problema più evidente sembra essere era il mancato utilizzo di un sistema di smaltimento delle acque reflue efficiente e centralizzato, irrinunciabile in presenza di turismo stanziale. Gli operatori turistici utilizzavano spesso e volentieri il sistema di drenaggio, lasciando defluire rifiuti pericolosi in mare.

Boracay beach- Philippines

A Maya Bay, invece, i problemi sembrano essere le creme solari, le barche e i turisti stessi, che davano da mangiare ai pesci compromettendo gravemente la loro salute e modificando il loro ruolo nella rete alimentare. Perché a Maya Bay non solo i coralli sono spariti, ma anche i pesci.

Al di là dei soliti conti economici e degli allarmi, questi due casi in realtà ci danno una certa speranza e ci fanno capire molto sul futuro dell’ambiente e del turismo. Ci insegnano che i governi finalmente cominciano a comprendere seriamente il valore dell’ambiente marino per il turismo, e che non è più possibile trattare il problema prescindendo dai suggerimenti scientifici. Fino a oggi solo le Hawaii hanno preso una posizione determinata contro le creme solari, problema noto già da tempo.  Oggi il problema si ripresenta con gravità marcata almeno nel caso di Maya Bay. Questi due casi ci suggeriscono che contingentare il turismo in zone molto più sensibili delle città d’arte è una scelta obbligata. Piazza San Marco a Venezia perderà molto fascino, ma sopravvivrà alla calca dei turisti. I coralli, come si è visto, no.

Aspettarsi che i turisti si autolimitino nell’affollare zone sensibili o fascinose è come aspettarsi di vedere uno stadio pieno a metà alla finale della coppa UEFA, che non seguo neanche un po’ ma immagino renda l’idea.

Emblematica la dichiarazione rilasciata al The Guardian di un turista americano intervistato a Maya Beach. Non gli interessava per niente che in spiaggia e nel risicato specchio d’acqua libero dalle barche la situazione fosse da scatola di sardine. A casa sua non c’era niente del genere e quindi essere lì valeva comunque la pena.

Boracay beach- Philippines

Allo stesso tempo non riesco mai a vedere il turismo in sé come una minaccia. In molte aree marine, come nella AMP di Portofino e in molti Parchi Marini in Egitto, per esempio, ci si è dotati di un sistema di boe, di regolamenti che limitano l’accesso delle barche e dei turisti alle aree marine protette. La costa egiziana del Mar Rosso si è dotata di un sistema di smaltimento delle acque reflue centralizzato, che impedisce l’accesso al mare di ogni scarico urbano. Un’opera gigantesca che non sarebbe stata possibile senza la previsione di ingenti introiti dal turismo. E il bando delle creme solari pericolose per i coralli sarebbe auspicabile non solo alle Hawaii, ma in ogni area marina protetta. Aspettarci che il turista diventi consapevole per proprio conto è purtroppo un miraggio, visto che il mondo sta sempre più virando su una informazione confezionata ‘on demand’ e rivaleggiata dai social.

Anche nei casi di Maya Bay e Boracay mi pongo le domande di sempre quando si parla di turismo ‘distruttivo’:

“E se su Phi Phi Leh, o Boracay invece del turismo ci fosse stata una fabbrica di cemento, o nessun visitatore del tutto: i governi si sarebbero accorti del loro valore? Si sarebbero presi la briga di proteggerli? E se sì: con quale incentivo, con quali soldi?”

Per approfondire:

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