THE BIG PICTURE – come farsi scacciare dall’Eden

Stiamo affrontando un disastro causato dall’uomo di portata globale. Si tratta del pericolo più grave in migliaia di anni: il cambiamento climatico. Se non interveniamo immediatamente, il collasso delle nostre civiltà e l’estinzione di gran parte del mondo naturale è all’orizzonte

David Attenborough al summit delle Nazioni Unite sul clima, Katowice, 3 dicembre 2018.

 

Sembra un romanzo distopico, dove a un certo punto della narrazione t’accorgi che qualcosa nel passato dell’umanità è andato veramente storto. E invece è il nostro presente nel mondo reale. Le previsioni di 2°C oltre la media dell’era preindustriale si sono dimostrate fin troppo ottimistiche: stiamo inesorabilmente marciando verso i 3-4°C di riscaldamento entro il secolo. L’Artico si sta dissolvendo e lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia ci preoccupa più di ogni altra cosa: rischia di neutralizzare la corrente del Golfo e di affogare innumerevoli insediamenti costieri. Uragani di intensità mai registrata si fanno sempre più frequenti e osano latitudini dove prima erano sconosciuti. Il deserto avanza imperterrito. Almeno il 30% delle barriere coralline è andato perduto e a fine secolo ne resterà al massimo il 10%.

Eppure lo sapevamo da ben 50 anni. Esattamente 50 anni e due mesi prima del summit di Katowice nasceva il Club di Roma, un think tank sullo sviluppo sostenibile. Negli anni immediatamente successivi, lo ricordo bene, il problema dell’effetto serra era già sui sussidiari. Sì, sui libri di testo delle scuole elementari. Sapevamo tutti benissimo che emissioni e deforestazione avrebbero portato al riscaldamento globale, alla desertificazione di vaste aree rurali del pianeta, all’impoverimento di intere regioni, alla perdita di interi ecosistemi, a esodi di massa. Per dirla tutta: dritti nel caos.

Come ci siamo arrivati? Verrebbe in mente l’inerzia, sociale e politica. Invece la scena degli ultimi 50 anni è stata caratterizzata da un enorme dinamismo. Il ’68 e il movimento hippy, la crisi petrolifera del 1973 (che ha indotto a consumi più consapevoli), la nascita del movimento dei Verdi negli anni ’80 e l’innovazione sostenibile hanno dominato la scena politica e sociale degli ultimi 50 anni. Nel 1997 nasce il Protocollo di Kyoto e nel 2015 l’Accordo di Parigi, al quale finalmente anche gli Usa, il paese storicamente più restio, avevano aderito grazie a Obama. Ma la spaventosa capacità finanziaria e strategica di chi remava contro ha preso il sopravvento. Una strategia talmente efficace che ha alimentato lo scollamento tra scienza e politica, tra politica e società civile, tra scienza e scienza.

Money talks, parlano i soldi. Tra le prime dieci società mondiali, in termini di profitti, cinque sono società petrolifere, due automobilistiche, una è una società elettrica. Manca però la più grande di tutte. La maggiore società petrolifera del mondo non è nella lista in quanto guadagni e asset non sono resi pubblici. Si tratta della Saudi Aramco, che secondo Bloomberg estrae più petrolio di Shell ed Exxon Mobil messe insieme. Con la Saudi Aramco le società direttamente o indirettamente interessate dall’industria dei combustibili fossili diventerebbero nove sulle prime dieci. Le cifre degli utili sono di grandezza astronomica. Gli introiti delle prime cinque società petrolifere (esclusa Saudi Aramco che non fornisce dati ufficiali) sommati corrispondono a 1445 miliardi di dollari, più del doppio delle entrate di un paese come l’Italia (568 miliardi di Euro nel 2017). Messi insieme, gli asset globali dell’industria del combustibile fossile si aggirano sui 25.000 (venticinquemila) miliardi di dollari.

Instillare il dubbio nella società e nella comunità scientifica con ricerche pilotate è stato un gioco relativamente economico. Delle tante interferenze la più nota è quello della Exxon Mobil, che ha finanziato con (solo) 28,9 milioni di dollari ricerche confezionate ad arte, con l’intento di smontare la tesi che il cambiamento climatico fosse di origine antropica, o comunque legato alla CO2. Questo ha gettato dubbi sulla comunità scientifica, alimentato i sospetti del pubblico, rallentato le decisioni negli ambiti politici. Un esempio di queste interferenze è in uno dei best seller più acclamati sullo sviluppo sostenibile.

In Collasso’ Jared Diamond (lo stesso autore di Armi acciaio e malattie) esamina le scelte che hanno portato intere civiltà alla scomparsa. Dal popolo dell’Isola di Pasqua ai Maya, dagli indiani Anasazi ai vichinghi che colonizzarono la Groenlandia, furono le decisioni sulla gestione del territorio e delle sue risorse a decretare la loro fine. Principalmente la deforestazione. Nel testo viene esposta la soluzione al problema della CO2 (lasciare in pace gli alberi), ma servita insieme ai dubbi sull’origine del cambiamento climatico. Jared Diamond è un osannato ricercatore e divulgatore scientifico, ma in Collasso suggerisce che il cambiamento climatico possa essere legato alle polveri provenienti da vaste aree desertificate. La Chevron (sì, la società petrolifera) lo aveva assunto per valutare l’impatto dei suoi impianti sulla vita selvatica, e gli ha finanziato più di una ricerca. Diamond non lo nasconde, lo dichiara apertamente nei suoi libri con un elogio sperticato ad una compagnia petrolifera che ha a cuore l’ambiente. Il suo messaggio è valido: riforestare è necessario. Ma sarà sufficiente? Soprattutto: sarà possibile? Con una popolazione mondiale in crescita le foreste stanno scomparendo. Bolsonaro, entusiasta seguace di Trump, non mostra nessuna intenzione di mettere a rigore l’Amazzonia, il polmone del mondo. Aree sempre più vaste in Indonesia, Africa e Borneo vanno perdute per far posto a coltivazioni che producono cibo per il mondo ricco (come il cacao in Costa d’Avorio), calorie per il mondo povero (olio di palma), mangime e biocarburanti. Ma anche a causa di incendi dovuti alla siccità. Anche se Trump accusa la gestione delle foreste alle guardie forestali locali e agli ambientalisti.

Dietro la pistola fumante non c’è solo la vendita del petrolio. Il carbone sta risorgendo come un fantasma degli albori dell’era industriale. A parità di energia prodotta il carbone emette il 50% in più di CO2 rispetto al petrolio e il 60% in più rispetto al gas naturale e sta vivendo un pericoloso revival in Cina, Vietnam, Australia, Russia, Polonia, e Stati Uniti, dove però la proverbiale attenzione per i costi difficilmente permetterà a Trump di spuntarla. Secondo Carbon Tracker il 42% delle centrali elettriche a carbone nel mondo perde soldi rispetto a fonti sostenibili. Se il petrolio è gestito da multinazionali che per definizione sfuggono alla politica dei governi (semmai la influenzano) il carbone è legato agli interessi nazionali dei paesi produttori.

Dietro la pistola fumante c’è chi guarda ai vantaggi dell’innalzamento delle temperature globali. Nell’Artico c’è un bengodi di risorse minerarie stimate intorno al 30% delle riserve di gas naturale e al 13% del petrolio del pianeta. Risorse che senza i ghiacci di mezzo, e per lo più situati su un fondale oceanico poco profondo, diventeranno decisamente a portata di mano. In quei territori è già in atto una vera e propria guerra fredda tra Cina, Russia e Stati Uniti. Una guerra fredda quasi invisibile, tanto che l’ultima clamorosa mossa nello scacchiere è passata quasi inosservata. Tra ottobre e novembre 2018 la NATO ha spiegato nell’Artico la bellezza di 50.000 (cinquantamila) soldati, 250 aerei, 65 navi e 10.000 veicoli terrestri per la più grande esercitazione dai tempi del muro di Berlino. Una risposta muscolare alla Russia, che dal 2011 sta incrementando esponenzialmente la sua presenza militare nella regione, dove ha dislocato la sua flotta più potente. Le motivazioni di questo spiegamento di forze? Russia: ‘Proteggere risorse e ecosistemi’. NATO: ‘Proteggere le popolazioni da eventuale attacco’. Certo, ci crediamo.

Il 28 settembre 2018 il cargo Venta Maersk ha aperto ufficialmente la rotta artica tra la Germania, la Corea del Sud e la Russia. L’Oceano Artico è già navigabile. Una nave proveniente da Shangai e diretta a Rotterdam, passando per l’Artico risparmia circa 5000 km di navigazione. Mentre alcune nazioni profittano dallo scioglimento dei ghiacci polari altre intanto, parlo di intere nazioni insulari come le Maldive e Kiribati e migliaia di insediamenti urbani e aree coltivabili, sono minacciate dall’aumento del livello del mare, da quella stessa acqua che si scioglie ai poli.

Dalle barriere coralline, invece, dipende la sopravvivenza di 500 milioni di esseri umani. Queste popolazioni saranno costrette a spostarsi altrove, generando un altro esodo di massa che passerà nel silenzio e nell’apatia generale, come sta già succedendo nell’area subsahariana.

L’effetto più macroscopico del riscaldamento globale è l’avanzata del Sahara verso sud. A nord non ci può andare perché c’è il mare. In meno di cento anni, dal 1920 ad oggi la superficie del Sahara è aumentata del 10%, divorando aree coltivate, villaggi, città, regioni intere. Le popolazioni interessate si sono spostate gradualmente verso sud esercitando una pressione demografica intollerabile su altre popolazioni ed economie non esattamente floride, innescando tensioni sociali e guerre. Situazioni come quelle esistenti in Darfur, in Sudan, in Ciad, Mali, Nigeria e Kenya sono alimentate dal deserto che avanza e dalla fuga di milioni di individui verso economie precarie. Le falde freatiche (non solo in Africa) si stanno abbassando in tutte le aree desertiche e semidesertiche del mondo. Dove prima bastava scavare sei metri per un pozzo, oggi si scava a trenta. Questa gigantesca crisi umanitaria è già in atto e interessa anche noi. Se per contenere gli immigrati si costruiscono muri, contro le emissioni nessun governo singolarmente può prendere misure efficaci.

È (finora) una fortuna che in Europa non esista, come invece accade tra i repubblicani in America e nella Russia di Putin, una vera forza politica negazionista del riscaldamento globale. Neanche tra le destre populiste: Viktor Orban si è detto scioccato dal ritiro di Trump dall’Accordo di Parigi. Il riscaldamento globale trova nella politica dei muri un pericoloso alleato. Indebolire e screditare le Nazioni Unite e l’Unione Europa rientra nell’agenda di Russia e Usa, che negano più o meno apertamente l’origine antropica del cambiamento climatico. Con l’accesso alle risorse e alle rotte artiche, sarebbero loro i primi a trarne vantaggio. Stati Uniti, Federazione Russa, Arabia Saudita e Kuwait si sono coalizzati intorno a posizioni ostruzionistiche sulla lotta alle emissioni. Tra i grandi produttori di CO2 la Cina resta consapevole, ma manca di trasparenza nelle misure adottate. La maggior parte dei governi europei dovranno vedersela non solo con le pressioni ingombranti di Russia e Usa, ma con una trappola costruita con le loro stesse mani.

Le cose peggiori sono sempre fatte con le migliori intenzioni
Oscar Wilde

Le tasse sui carburanti e su tutto ciò che inquina contengono un suggerimento subliminale: è colpa del consumatore. Plastica e riscaldamento globale hanno un’unica origine e quindi hanno condiviso lo stesso iter strategico. Purtroppo senza valide alternative al consumo anche le migliori intenzioni si trasformano in un’arma a doppio taglio: le tasse generano dipendenza.

In Italia almeno 30 dei 568 miliardi del bilancio derivano da imposte e balzelli sui carburanti. Non è certo l’unico paese europeo (avete presente la Francia?) ad avvalersi di questo impopolare espediente per fare cassa, ma la prassi rende di fatto i governi dipendenti e, loro malgrado, legati alla produzione di CO2. Incentivare le fonti rinnovabili e limitare i consumi di combustibili fossili, tradotto in soldi, significa spendere invece di incassare. Un bel dilemma per chi non sa come arrivare a fine anno. Eppure, si può fare. In Europa decisamente fuori dal problema c’è la Germania, con il 64% della sua energia da fonti sostenibili. La Germania ha dimostrato al mondo che puntare sulle rinnovabili può funzionare, può produrre benessere. E tecnologia esportabile: il Canale d’Irlanda è una foresta di centrali eoliche sviluppate dalla Siemens. Dando il ben servito a una lobby britannica con tanto di fondazione no profit, la Global Warming Policy Foundation, che in UK cerca di diffondere false ricerche sul riscaldamento globale, e che chiede anche di essere finanziata con donazioni.

Se nessuno è uscito veramente contento da Katowice, Cop 24 ha visto nuovi protagonisti: i movimenti indipendenti di cittadini che non vogliono più affidarsi soltanto alle forze politiche, ma a loro stessi, come 350.org e People’s Seat. David Attenborough ha parlato a nome del ‘People’s Seat’ una iniziativa creata proprio dalle Nazioni Unite con lo scopo di aggregare milioni di persone per consegnare un messaggio forte e autorevole ai leader mondiali. È intervenuta Greta Thunberg, attivista quindicenne svedese, famosa per aver scatenato tramite twitter lo sciopero del venerdì, un fenomeno che si è esteso nelle scuole di tutto il mondo, soprattutto in Australia. Greta ha detto:

“Voi parlate soltanto di un’eterna crescita economica verde poiché avete troppa paura di essere impopolari. Parlate soltanto di proseguire con le stesse cattive idee che ci hanno condotto a questo casino, anche quando l’unica cosa sensata da fare sarebbe tirare il freno d’emergenza. Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno, lasciate questo fardello a noi bambini. La biosfera è sacrificata perché alcuni possano vivere nel lusso. La sofferenza di molte persone paga il lusso di pochi. Se è impossibile trovare soluzioni all’interno di questo sistema, allora dobbiamo cambiare sistema.”

È vero. Chi si avvantaggia del riscaldamento globale ha un tenore di vita molto diverso da quello del resto del mondo, della gente comune che si preoccupa giorno dopo giorno di limitare i consumi, di comprare prodotti sostenibili. Basta dare un’occhiata su Instagram per capire che esiste una minuscola porzione di umanità che vive in un altro pianeta. Hanno case dalle maniglie d’oro, senza neanche una pianta in salotto. Accarezzano grandi felini strappati al loro ambiente naturale. I politici, se vorranno mantenere il consenso, dovranno fare i conti con un giudizio popolare sempre più critico e con una seria minaccia da affrontare entro i prossimi due anni, e senza spostare eserciti. L’anno tra i quattro più caldi mai registrati si chiude con un ultimatum che non può essere preso sottogamba: le decisioni prese da ora al 2020 determineranno in che misura la Terra rimarrà abitabile.

L’Eden era qui, ma non ce ne siamo accorti. Il frutto proibito era il combustibile fossile. La vita in mare e sulla Terra continuerà sotto forme diverse: non si estinguerà totalmente. Nel passato sul pianeta ci sono stati cambiamenti ancora più drastici, ma ciò che stiamo affrontando adesso avviene ad una velocità mai registrata, tale che non consentirà alla maggior parte delle specie di evolversi e di adattarsi. Se non ci muoviamo in fretta faremo parte anche noi delle specie estinte. Non sarà un asteroide né la guerra atomica a spazzarci via, ma la natura stessa.

“E’ questo il modo in cui finisce il mondo

Non già con uno schianto ma con un lamento.”

Oggi, come mai prima, l’ultima strofa de ‘Gli uomini vuoti’ di Eliot rischia di diventare profetica.

Fonti e Approfondimenti:

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Sahara, guerre, diritti umani e desertificazione

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