Sepúlveda e il Mare alla fine del mondo
Nel 1984 nel porto di Yokohama Greenpeace impedì alla flotta baleniera giapponese di prendere il mare aperto. Per settimane i suoi attivisti, con il solo scopo di proteggere le balene si offrirono come scudi umani. Sfidarono incessantemente le prue di navi da 8000 tonnellate con dei gommoni, sfidarono gli idranti, la spazzatura e le sostanze più ributtanti lanciate fuoribordo dai marinai giapponesi. Ma alla fine la spuntarono: avevano lasciato un segno così profondo nelle coscienze mondiali che subito dopo ci fu una moratoria mondiale sulla caccia ai cetacei. A bordo di quei gommoni c’era lo scrittore apolide Luis Sepúlveda.
“Per un mese abbiamo vissuto a bordo di quei gommoni con turni di sei ore ogni giorno, e poi al rientro sulla nostra nave non trovavamo neanche un pasto caldo, solo carne secca” – disse più tardi, sorridendo.
La sua avventura con Greenpeace era iniziata due anni prima. Nel porto di Amburgo Sepúlveda vide ormeggiata una nave con i colori arcobaleno. Aveva sentito parlare dell’organizzazione, e decise di fermarsi a scambiare due parole con i ragazzi in banchina. Lo invitarono per una visita a bordo e gli chiesero di diventare un promotore o un sostenitore. Ma per uno come lui, uno che aveva conosciuto le carceri di Pinochet e la tortura, uno che era andato a combattere in Nicaragua a fianco dei sandinisti contro il dittatore Somoza, uno che aveva vissuto sette mesi tra gli indios Shuar in Amazzonia per un progetto dell’UNESCO, le parole sostenere e promuovere suonavano scialbe. Ci ragionò su trenta minuti. Mezz’ora dopo firmava come membro dell’equipaggio e prese parte a numerose azioni di contrasto, a spedizioni di ricerca scientifica, come quando andò a censire le balenottere nel Mare di Cortez, in Baja California. Per cinque anni Luis Sepúlveda fu un marinaio e poi coordinatore di Greenpeace, un rainbow warrior: un guerriero dell’arcobaleno.
Non era nuovo al mare. Dall’età di quattordici anni, zaino in spalla, aveva viaggiato in lungo e il largo per l’America latina, e aveva raggiunto uno dei mari più difficili del pianeta, quello del cono sud, verso lo Stretto di Magellano e il temutissimo Capo Horn. L’esperienza con Greenpeace gli offrì lo spunto per un romanzo: ‘Il mondo alla fine del mondo’. In quelle pagine intense ci mise la sua Patagonia, quella cilena, fatta di mille isole e di fiordi, di vegetazione fitta, una sorta di Norvegia australe. Ci mise dentro l’orrore della deforestazione perpetrata dove gli occhi non vedono, un orrore che crea montagne artificiali di trucioli, montagne gialle su un mare vergine. Ci mise i balenieri giapponesi i quali, con la compiacenza dei funzionari cileni, si avventano sulle balene pilota, protette da una moratoria assoluta. A contrastarli, nel racconto, c’è solo una giornalista, investita da un’auto in circostanze misteriose. E un equipaggio di mezzosangue mezzo contrabbandieri. Lo sfondo è il dedalo di isole e canali intorno al famigerato stretto di Magellano. Uno dei luoghi più pericolosi al mondo per la navigazione.
“Fareste prima a chiedermi quale banco di sabbia non è pericoloso”
Lo afferma uno dei suoi personaggi, un vecchio marinaio, quando gli viene richiesto di sottoporsi a un esame per la patente nautica. Il tema che ricorre anche ne ‘Il mondo alla fine del mondo’, come in molti lavori di Sepúlveda, è la natura che si ribella contro i bracconieri. Fino a farli letteralmente a pezzi. Ma nella visione etica dello scrittore solo la natura ha diritto alla spietatezza. L’essere umano deve combattere anche per sottrarsi al suo esercizio, come ne ‘La fine della Storia’, il suo ultimo libro.
Il mito di Moby Dick.
In ‘Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa’ Sepúlveda entra nel cuore di un mito marinaresco e rovescia le prospettive. La nave baleniera Essex, una tre alberi varata a Nantucket nel 1799, ventuno anni dopo venne affondata da un capodoglio ‘color della luna’. Quel capodoglio, quattro giorni prima, aveva distrutto una delle lance che lo inseguivano. Colpì la nave più volte sotto la linea di galleggiamento, aprendo una falla incontenibile. Si dovette abbandonare la nave. A bordo di una delle scialuppe avvenne uno degli episodi horror più famosi della storia: i naufraghi estrassero a sorte uno di loro per nutrirsene. Ispirandosi alla storia della balena bianca nel 1851 Herman Melville scrisse il suo straordinario Moby Dick, un’opera che ha attraversato indenne quasi un paio di secoli. Ma se il romanzo di Melville era incentrato sul capitano Achab e la sua ossessione per la balena assassina, calibrata come potente simbolo archetipico, Sepúlveda ha esplorato il punto di vista mai narrato, quello del capodoglio.
“Il mio mondo è fatto di silenzio. Nessuna creatura si lamenta, grida, grugnisce o strilla sotto la superficie e solo noi giganti rompiamo a volte la quiete. Io… emetto il mio schiocco…. Sulla superficie, invece, risuonano incessanti il fruscio del vento, il fragore delle onde, le grida dei gabbiani e dei cormorani e, a volte, la voce dell’essere meno adatto a vivere sul mare. L’uomo.”
La voce è quella del cetaceo, ma arriva tramite un poetico espediente letterario. Arriva tramite il gesto di un ragazzino appartenente alla Gente del Mare, i Lafquenches, che dopo la morte attendono quattro balene per essere traghettati su un’isola ideale. I Lafquenches, di etnia Mapuche, sono i più antichi abitanti della Terra del Fuoco: erano loro le loro fiamme in cima alle scogliere che suggerirono agli esploratori occidentali il nome per quella regione selvaggia. Essenzialmente pescatori, I Lafquanches avevano vissuto per millenni in una regione dove le maree raggiungono i dieci metri d’escursione, e le correnti assumono una forza non immaginabile neanche nel Mare del Nord. S’erano orientati in un labirinto di isole e canali sferzati da venti mutevoli. È questo il Sud del Mondo che Sepúlveda ha conosciuto e navigato, ma senza le telecamere dietro. Semmai molti passi dietro le telecamere, curando le sceneggiature di documentari, come ‘Corazon Verde’, e ‘Nowhere’. Quello che aveva da raccontare lo raccontano ancora i suoi personaggi. Spesso autobiografici, ma che non portano mai il suo nome.
“A Juan Belmonte ho donato parte della mia biografia”
Juan Belmonte, il suo protagonista ‘con un nome da torero’ è stato membro della guardia personale di Allende e, come lui, ha combattuto in Nicaragua. Juan Belmonte vive in semi-clandestinità su un’isola del suo Sud del Mondo. Solo nell’ultimo libro pubblicato ‘La fine della storia’ Sepúlveda aprì i suoi cassetti, quelli che contengono gli orrori di Villa Grimaldi, il tempio delle torture. Ma si guardò bene dal raccontarli in prima persona: tutto ciò che accade, accade solo ai suoi personaggi, in un contesto rigoroso di fiction. Un pudore, il suo, che ai tempi del Grande Fratello e degli Ego Narranti, di autori che ci sommergono di loro stessi e dei loro ‘traumi infantili’, diventa un gesto di rara eleganza.
“Non considero la scrittura come un dono degli dei, un privilegio accordato a una certa casta. È solo un lavoro! Mi fa ridere quando sento parlare di autori che affermano di soffrire molto quando scrivono. Se soffrono così tanto, perché scrivono? Non c’è bisogno di essere masochisti.”
Il suo dono era esserci. Era sui gommoni a Yokohama e nel Mare di Cortez, era nell’insidioso stretto di Magellano, davanti a carte nautiche che farebbero impazzire chiunque. Era in Unione Sovietica a studiare drammaturgia quando fu espulso, per la sua amicizia con un dissidente, era al fianco di Salvador Allende quando venne assassinato, era in Nicaragua a combattere contro Somoza, era nella giungla amazzonica a valutare l’impatto del mondo moderno sulle tribù locali quando partorì il suo primo capolavoro: ‘Il vecchio che leggeva romanzi d’amore’, dedicato a Chico Mendes, attivista ambientalista ucciso dagli sfruttatori dell’Amazzonia. Era in mare quando Mocha Dick, poi divenuta Moby Dick, affondò la Essex. Parafrasando un famoso aforisma di Umberto Eco, Sepúlveda ha scritto ciò che ha scritto perché c’era davvero. E grazie a lui c’eravamo anche noi.
“Viaggiando in lungo e in largo per il mondo ho incontrato magnifici sognatori, uomini e donne che credono con testardaggine nei sogni. Li mantengono, li coltivano, li condividono, li moltiplicano. Io umilmente, a modo mio, ho fatto lo stesso.”
Il 16 aprile del 2020 è stato stroncato dal coronavirus, dopo 47 giorni di battaglia.
Chi lo ha letto o conosciuto se lo è chiesto, disperatamente, come ce lo chiediamo ogni volta davanti alla morte: Sepúlveda non era un baleniere della Essex, né il gringo che aveva ucciso i cuccioli di tigrillo ne ‘Il vecchio che leggeva romanzi d’amore’, non sedeva nei consigli di amministrazione delle compagnie che avvelenano il pianeta. Perché Moby Dick, questa vendetta della natura contro l’umano ha colpito un paladino dell’ambiente e della solidarietà? Ce lo chiediamo sapendo che non c’è risposta a domande del genere. Sappiamo solo che quando la natura si ribella non ha riguardi. Possiamo però essere certi che Sepúlveda ci abbia rappresentati, come specie umana, totalmente. Fino in fondo. E che con i suoi libri continuerà a parlare alla parte migliore di tutti noi.
“Prima ancora di essere uno scrittore, sono un cittadino”
Luis Sepúlveda
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