Cronache artiche. Eva Gunnare, la signora delle erbe
“Vorrei conoscere una persona del posto, che mi racconti qualcosa di questo luogo e delle sue tradizioni.”
“Qualcuno di cultura sami, quindi.”
“Sì: un lappone.”
“Allora devi parlare con Eva.”
“Chi è Eva?”
Senza scomporsi, la signora davanti a me prende il telefono e fa una chiamata. Sono in una piccola pasticceria di Jokkmokk, nel Nord della Svezia, giusto qualche chilometro sopra il Circolo Polare Artico. Da sei anni a questa parte, a fine agosto, mi ritaglio testardamente due settimane di itineranzain solitaria “su al Nord”: indicazione generica che nel mio personalissimo alfabeto di viaggio abbraccia un’area più o meno definita che va dall’Islanda in su. Quattro viaggi in Islanda e uno in Groenlandia mi hanno svezzata a dovere. Poi ho scavalcato il cerchio magico del parallelo 66°33’39 e mi sono imbattuta nel Nord della Scandinavia: la Lapponia o Sàpmi, come la chiamano i Lapponi cancellando con un colpo di spugna i confini nazionali di Norvegia, Svezia e Finlandia. Negli ultimi tre anni ho percorso in lungo e in largo la Lapponia norvegese e il suo corrispettivo finlandese. Quest’anno, è la volta del Nord della Svezia, complici le restrizioni anti-covid (che rendono difficile viaggiare negli altri paesi scandinavi) e la politica decisamente di manica larga adottata dal governo svedese.
Arrivare qui, è stato tutt’altro che facile tra voli annullati, treni notturni e autobus con orari resi ogni giorno più approssimativi dalla chiusura delle frontiere. Non ho la patente e sono abituata a muovermi con voli economici, autobus e a piedi ma senz’altro quest’anno le cose sono più complicate del solito. Sta di fatto, però, che ora sono qui: in una piccola pasticceria di Jokkmokk, appunto, con una brioche alla cannella davanti e una signora che parla in svedese stretto al telefono con qualcuno. “Eccola, le ho detto che c’è una giornalista che la vuole intervistare.” dice passandomi direttamente il cellulare. Tempo un minuto e mi ritrovo con un appuntamento per il giorno dopo con Eva Gunnare, esperta di erbe artiche e food creator, come si definisce lei stessa. Cosa voglia dire e cosa c’entri questo con la tradizione lappone, lo capirò il giorno dopo.
Eva Gunnare, una lappone d’adozione
Eva mi dà appuntamento in un cortile alberato fra l’Ajtte Museum (il museo svedese della montagna e dei Sami) e il Sami Education Center. È una signora sorridente, con un giaccone multicolore e una sporta di vimini piena zeppa di boccette e piccole scatole di colori e dimensioni diverse. Bastano giusto i convenevoli per farmi capire che sta per scattare quella particolarissima forma di connessione in cui incappo a volte durante i miei viaggi, soprattutto sulla scia di incontri casuali. L’alchimia esiste, eccome, e non può essere prevista ma solo indovinata e colta al volo come un dono che arriva o non arriva.
“Io non sono di qui: sono una ragazza del Sud” esordisce Eva spiazzandomi subito. Il Sud, però, nel suo caso sarebbe Stoccolma. D’altra parte, tutto è relativo. Armeggiando tra bottigliette di vetro, cucchiaini e gel idroalcolico (saremo pure in Svezia, ma le norme vanno rispettate) Eva mi racconta la sua storia. Il richiamo che l’ha trascinata quassù, poco più che ventenne, il colpo di fulmine per Kvikkjokk – la porta d’ingresso al Padjelanta National Park – e l’incontro con il suo ex marito: un Sami, appunto, pastore di renne. Lappone d’adozione, Eva ci ha messo una vita a creare una professione che fosse tagliata e cucita a misura per lei. “Ho lavorato come manager per anni, ma il lavoro d’ufficio mi è sempre stato stretto” racconta “così un giorno ho deciso di ripartire da quella che è sempre stata la mia passione: la cucina. Non volevo un lavoro fisso però – da chef, per esempio – e non volevo trincerarmi di nuovo in uno spazio chiuso. Così mi sono messa a studiare le erbe per imparare a usarle. Ho studiato proprio qui, dove ora tengo alcuni corsi.” mi dice indicando l’edificio che abbiamo davanti.
So vagamente di che si tratta ma inizio a metterlo davvero a fuoco solo ora: non si tratta di una semplice scuola Sami ma del Sami Education Center di Jokkmokk, una scuola di istruzione superiore lappone pensata ad hoc per aiutare la popolazione locale a conservare la propria cultura e a farlo nel senso più dinamico del termine, cioè in modo trasformativo. Come disse Jean Jaurès “tradizione non significa culto delle ceneri, ma custodia del fuoco” e questo – in Lapponia – lo sanno molto bene. Sarà merito delle origini nomadi, che probabilmente predispongono a pensare tutto come fluido (panta rei, come si dice molto più a Sud), ma questo popolo di pastori di renne è riuscito a dare al concetto stesso di conservazione un’impronta tutt’altro che statica. Anche grazie al supporto del governo centrale, senza dubbio. Il Sami Education Center di Jokkmokk si distingue tanto dalle scuole lapponi di istruzione primaria, quanto dall’università sami di Kautokeino (in Norvegia). Qui a Jokkmokk, oltre alla lingua e alla cultura sami, si insegnano anche le principali attività lavorative della tradizione – artigianato e pastorizia delle renne – con un occhio di riguardo alle moderne tecniche di business necessarie per radicare queste attività nel tessuto socio-economico attuale. È evidente come un’impostazione di questo tipo – che punta a potenziare il legame non solo con il proprio passato ma anche con il territorio e l’hic et nunc– abbia importanti conseguenze anche sul piano della consapevolezza ambientale e del turismo. Si ha cura di ciò a cui ci si sente connessi da un senso di appartenenza, per quanto il concetto stesso di appartenenza dei Sami sia molto diverso dal nostro. Puntare allo sviluppo delle attività locali stabilendo un rapporto di continuità tra passato e presente, significa quindi “custodire la fiamma” e investirla nella conservazione del proprio patrimonio culturale e ambientale. È in questa accezione che Eva Gunnare – una sami d’adozione – ha studiato la flora artica e le piante officinali del luogo, usando la tradizione come base di partenza per creare un proprio ricettario. Oggi Eva cucina con le erbe, tiene corsi e accompagna le persone nei boschi insegnando a riconoscere le bacche e le piante del Nord e le loro funzioni. Ma soprattutto – ed è questa, forse, la cosa che più mi colpisce di questo incontro – Eva insegna a vedere.
Imparare a leggere i boschi del Nord
Se c’è una cosa che mi ha sempre impressionato, è il potere creativo della parola. Impariamo a vedere la realtà solo quando iniziamo a darle un nome. Per esempio, si dice che per gli antichi Greci il colore blu non esistesse: tant’è che Omero descriveva il mare come “del colore del vino”. Qualche centinaio di anni dopo, il linguista israeliano Guy Deutscher fece un esperimento con la figlioletta Alma evitando di fornirle categorie linguistiche che classificassero il colore blu. Il risultato è che fino ai cinque anni la bambina disegnò il cielo lasciandolo bianco, cioè senza stabilire un’associazione cognitiva fra la tonalità blu dei pennarelli e il colore del cielo. La stessa cosa si può dire per diverse etnie che non associando nessuna parola (e quindi nessuna categoria mentale) ad alcuni colori, di fatto finiscono per non distinguerli da altri colori di tonalità affini. Ripenso a tutto questo mentre Eva mi accompagna nel bosco vicino alla scuola. Ogni nome che pronuncia, mi accende lo sguardo su un albero o su una pianta che fino a quel momento, per me, apparteneva a un concetto vago e indistinto. Il bosco, da guazzabuglio di verdi diversi, inizia a scomporsi in nomi e profili. Ma non solo. Se – da profana – ho sempre pensato che con l’eccezione di qualche bacca, i boschi riservassero ben poco di commestibile, durante la ricognizione con Eva dovrò ricredermi. La terra è molto più generosa di quanto io pensi e non è vero che la maggior parte delle sue erbe e dei suoi frutti siano tossici o velenosi. Metterò alla prova questa nuova visione nei giorni successivi quando, armata del mio taccuino di appunti e di PlantNet (una app utilissima, che userò per verificare le mie intuizioni), inizierò ad assaggiare il bosco e ad associare alla percezione visiva anche la dimensione del gusto, del tatto e le sensazioni olfattive.
Tassello dopo tassello, Eva rivoluziona la mia visione dell’ambiente e lo fa semplicemente aiutandomi a metterlo a fuoco: “La primavera, per me, inizia davvero tra la fine di aprile e i primi di maggio. Allora vado nel bosco, scelgo una betulla di mezza età, faccio un buco nel suo tronco e ne raccolgo la linfa. Eccola qui.” Stappa una boccetta e mi versa nel bicchiere un liquido trasparente, lievemente dorato. Il sapore è dolce, delicatissimo. “Sa di pulito.” dico d’istinto. Eva sorride: “Ha un forte potere detossinante e diuretico, in effetti. Con otto litri di linfa di betulla, produco circa mezza boccetta di sciroppo, ma di questo te ne faccio assaggiare solo mezzo cucchiaino perché ne ho poco. È un forte ricostituente, ottimo anche per chi soffre di allergia ai pollini.” “E le foglie della betulla, sono commestibili?” le chiedo incuriosita. Eva annuisce e mi indica le foglioline verde tenero di una betulla molto giovane: “Certo. Con queste, per esempio faccio un ottimo infuso a freddo. Aspetta che te lo faccio assaggiare. Anche questo è diuretico e detossinante e in più è un buon regolatore per lo stomaco e l’intestino.” Lascio scorrere lungo il palato un sorso freschissimo. “Sa di verde!” dico a Eva che scoppia a ridere e intanto mi invita a chinarmi. Sgrana delicatamente fra le dita – come un rosario – i piccoli frutti, bruni e lucenti, di un’erba che cresce ai nostri piedi: “Bistorta vivipara: i frutti di quest’erba sono un notevole concentrato di carboidrati. Gli antichi se ne nutrivano spesso.
Un altro concentrato di nutrienti è la corteccia interna del pino. La parte tenera, insomma. In passato, era davvero il pane dei poveri. In realtà, però, è solo tra maggio e giugno che la corteccia del pino raccoglie davvero tutte le sostanze nutritive che le radici veicolano verso la pianta. In altri periodi, al massimo con la corteccia di pino ci si può riempire la pancia. La differenza tra il cibo d’emergenza e cibo di nutrimento, sta tutta qui: nella conoscenza. A proposito: prova questo.” Schiaccia tra i polpastrelli degli aghi di abete e me li passa sotto il naso. “Hai mai mangiato l’albero di Natale?” Ovviamente no, ma sono prontissima a farlo. Eva mi imbastisce in due minuti una carrellata di sapori a base di conifere: grissini agli aghi di pino su cui spalma una noce di burro salato aromatizzato al ginepro e poi germogli di abete immersi in aceto e zucchero. Buonissimi.
Strada facendo, mi racconta di come le piante – officinali e non – per lei siano una base di partenza per creare nuove ricette e ridare senso e vita alla tradizione. “Prendi l’Angelica, per esempio. È una delle piante più importanti, per i Sami. Il nome scientifico è angelica archangelica: sai perché? Secondo la leggenda, l’arcangelo Raffaele la regalò ai Lapponi come rimedio supremo. Pensa che anche oggi, durante i mercati invernali, i Sami fumano le sue foglie e ne masticano le radici perché dicono che tengano lontani gli spiriti maligni. E in effetti hanno ragione! Questa pianta ha infatti un forte potere antibatterico e anti infiammatorio, quindi – fuor di metafora – se vogliamo, in effetti possiamo identificare spiriti maligni e batteri. Io uso l’angelica in cucina. Con i gambi, faccio dei canditi secondo una ricetta che si usa anche in Francia. I semi, invece, li faccio tostare e poi li uso per aromatizzare i dolci e focacce. Ora te li faccio assaggiare: prova a dirmi di cosa sanno, secondo te.” Rispondo senza ombra di dubbio. “Di cacao! Incredibile: sembra di mangiare delle gocce di cioccolata.”
Il nostro viaggio continua. Il silenzio del bosco è tagliato solo dal vento – che qui, nell’Artico, è la regola – e dal tintinnio di boccette e cucchiaini dell’inesauribile sporta di Eva. “Fra tutte le piante che usi” le chiedo “ce ne sono di lievemente tossiche?” Eva aguzza lo sguardo e cerca per qualche minuto. Poi prende alcune foglie fra le dita. “Questo, lo chiamano tè del Labrador e contiene degli alcaloidi tossici che, in dosi concentrate, possono risultare dannosi. Detto questo, basta già il nome a farti capire che qualche tazza di infuso, non ha mai ucciso nessuno. Il tè fatto con le sue foglie, era una bevanda molto diffusa fra gli Indiani d’America e durante la guerra di indipendenza, venne usato anche come sostituto del tè vero e proprio. Le foglie inoltre sono utilissime in estate. Se te le sfreghi sulla pelle o sui vestiti, tengono alla larga le zanzare. Qui accanto, invece, vedi una bacca che in passato era ritenuta velenosa, ma che non lo è affatto. Anche in questo caso, nomen omen. Questa specie di mirtillo, si chiama Odon. Personalmente, sono abbastanza convinta che ci sia un legame con il nome del dio Odino, tant’è che le bacche di questa pianta venivano utilizzate dagli antichi sacerdoti per dei rituali che, senza dubbio, piacevano poco ai preti. Così, durante la cristianizzazione della Lapponia, si iniziò a dire che questa pianta era velenosa.”
La fucina dell’alchimista, dove il viaggio si scioglie in canto
Qualche ora dopo, Eva mi invita a casa sua dove mi mostra la sua “stanza dei tesori” – il laboratorio in cui foglie, bacche, essenze e tinture riposano– e mi imbandisce una signora merenda. Parliamo di “Essense of Lapland” – la sua creatura – mentre lei mi versa un tè a base di betulla, menta e ribes nero. Le chiedo cosa significhi, per lei, essere una food creator anche se in fondo, la risposta l’ho già in mente.”Negli anni, ho creato esattamente il lavoro che ho sempre voluto fare. Amo cucinare e amo il mondo delle piante ma non sono né una chef né una botanica. In fondo, forse, sono un’alchimista.” dice, rubandomi le parole di bocca. La prima cosa a cui ho pensato entrando nella sua cucina, infatti, è proprio questa: “solve et coagula” – dissoluzione e composizione – l’antico motto alchemico. Non mi riferisco alla preparazione di tinture, distillati e sciroppi e alla solutio vera e propria – chimicamente parlando – quanto piuttosto alla trasformazione dei principi della tradizione nella sintesi di ricette nuove. “Custodia del fuoco”, come direbbe Jean Jaurès: alla fine, gira che ti rigira, torniamo sempre lì.
Proprio parlando di conservazione del patrimonio locale, chiedo a Eva chi sono i principali destinatari dei corsi che tiene. I locali? “No” mi risponde “Chi abita qui, vive già immerso nella natura e non sente la necessità di metterla a fuoco. Con l’eccezione dei corsi che tengo presso il Sami Eucation Center, la maggior parte delle persone che mi seguono vengono dalla città. Hanno un’idea romantica della natura e la cercano soprattutto come controparte dell’urbanizzazione.” Mi sento chiamata in causa. Touchée. Come Eva stessa, del resto: una “ragazza del Sud” come si è definita, ma anche una ragazza di città che un giorno è partita e ha incontrato il Grande Nord. L’identità non si possiede, si costruisce. “Conosci il joik?” mi chiede Eva mentre stiamo per salutarci. Sì, lo conosco: è una forma di canto tradizionale sami. Nella Lapponia finlandese, si dice che fu Akanidi – la figlia del Sole – a lasciarlo in dono, prima di morire, agli uomini che l’avevano uccisa, invidiosi delle sue arti. “Quando ero giovane, a Kvikkjokk, un artista sami mi ha regalato un joik. L’ho dimenticato per anni, finché un giorno l’ho ritrovato dentro di me. Ora te lo canto ma chiudi gli occhi: il joik va ascoltato ad occhi chiusi.” E canta. Ha la voce leggera, che profuma di foglie e di pioggia. Il joik si dipana, mentre cerco di fare buio dentro di me per accoglierlo. È bellissimo. Eva lo ha ricevuto in dono e in un certo senso credo che ora lo stia passando a me. E anche se so benissimo che non riuscirò a ricordarne nemmeno una nota, non accenno volutamente alla possibilità di registrarlo. Conservare, paradossalmente, significa anche questo: lasciare andare. E custodire con cura ciò che resta.
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