Chiacchiere da capodoglio

© Chiara Baù

Il sole tarda a tramontare, in attesa che il re dei mari emerga dalle onde scolpendo la linea dell’orizzonte con la sagoma della sua magnifica coda. Lo scrittore Hermann Melville lo chiama Moby Dick. Il protagonista della mia storia è semplicemente un capodoglio. Intorno un’atmosfera ricca di silenzi, ognuno diverso dall’altro. La superficie del mare sembra intoccabile. Un fulmaro nordico (Fulmarus glacialis), appartenente alla famiglia dei Procellaridi, imparentato con i grandi albatri, sfiora l’acqua del mare. Tale è la grazia del suo volo che le ali sembrano collegate ai fili trasparenti di un burattinaio che lentamente li muove dall’alto.

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Apparentemente il fulmaro è il protagonista incontrastato di questo spazio di oceano. Non sembra interessato a pescare, solo a volteggiare esibendosi in modo leggero ed elegante come in una danza. Contrariamente a quanto si possa pensare, negli uccelli marini procellariformi, l’olfatto riveste un’importanza vitale. I bulbi olfattivi sono infatti alquanto sviluppati e la ricerca del pesce si affida all’olfatto piuttosto che alla vista, proprio come fanno gli orsi bruni che sfruttano la loro eccezionale sensibilità olfattiva per pescare i salmoni. Nei suoi volteggi illuminati dall’accesa luce del tramonto il fulmaro sembra aspettare l’arrivo del capodoglio. Lo scenario è il Mar della Norvegia, Oceano Atlantico settentrionale, a un’ora di navigazione da Andenes, l’insediamento più settentrionale di Andoia, una delle isole appartenenti all’arcipelago norvegese delle Vesteralen. A circa trecento chilometri oltre il circolo polare artico la luce dilata le giornate regalando al mare sfumature argentee.

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Con un gommone si raggiunge il margine della piattaforma continentale in prossimità del Bleik canyon, una zona particolarmente ricca di cibo dove si trovano capodogli tutto l’anno. Solo i maschi adulti si spostano ad alte latitudini per nutrirsi, le femmine e gli esemplari giovani rimangono nei mari temperati e tropicali. Le distese dell’Oceano Atlantico sono così immense che sembra impossibile riuscire ad incontrare questi cetacei.

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A bordo dell’imbarcazione ci sono ricercatori intenti a studiarne il comportamento ed è grazie al loro idrofono che si entra in contatto con un capodoglio. Si tratta di uno strumento elettro-acustico che permette di rivelare le onde acustiche, evidenziando la direzione della loro sorgente. Alcuni cetacei, come pure i pipistrelli, sono dotati di ecolocalizzazione cioè la capacità d’individuare oggetti, prede o soggetti conspecifici e orientarsi nell’ambiente tramite l’emissione di ultrasuoni e l’ascolto degli echi riflessi dagli oggetti. I segnali emessi dai cetacei sono impulsi a banda larga, dalle frequenze udibili anche dall’uomo a oltre 200 kHz. Le parole di tale linguaggio sono conosciute come clicks. Indosso le cuffie legate all’idrofono e mi connetto con un mondo solo apparentemente silenzioso.

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Ecco il primo click, il primo contatto con un capodoglio. I segnali vengono emessi in sequenze con intervallo di ripetizione variabile da pochi clicks al secondo nella normale ricognizione dell’ambiente a diverse centinaia per la localizzazione e l’inseguimento di una preda. Certo è che per vivere, comunicare e cacciare in un ambiente dove la visibilità è di poche decine di metri, i suoni sono il miglior strumento disponibile. Il loro repertorio vocale corrisponde alla vista dell’uomo. Imparo subito a distinguere questa nuova voce dell’oceano, click, click click , ecco la sequenza. Mi indica che il capodoglio si trova nelle vicinanze. Mi racconta della sua vita in mare, mi trasmette quella pace che prova ogni volta che discende negli abissi profondi. Continuo a rimanere in ascolto. Pochi minuti e uno sbuffo sull’orizzonte rivela la sua presenza. Emerge e inizia lo spettacolo. L’aria che fuoriesce dallo sfiatatoio crea una nuvola d’acqua sull’orizzonte del mare e si confonde con le nuvole del cielo.

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Terminata la sequenza respiratoria durante la quale, indisturbato, ha emesso cinque o sei soffi al minuto, estrae verticalmente la coda dell’acqua per poi immergersi nuovamente.

Lento e delicato, di incomparabile bellezza. Poi scompare. Con il ritmo regolare del battito della coda il capodoglio sprofonda negli abissi, passando gradatamente dalla luce al buio, sfidando tutte le leggi della fisica, fino a livelli di pressione inimmaginabili.

Durante la calata negli abissi incrocia la vita di innumerevoli abitanti del mare che con ammirazione lo osservano lungo il suo percorso verso il fondo. Migliaia di pesci, dai tonni alle rane pescatrici, dalle meduse alle tartarughe. Tale è il rispetto per questo animale che sembra tutti si spostino di lato per lasciarlo passare.

Mentre si immerge la temperatura si abbassa, l’intensità della luce diminuisce. Il battito regolare della pinna caudale spinge il capodoglio sempre più in fondo. Man mano la pressione che grava su di lui sale di tre o quattro atmosfere, i suoi polmoni vengono compressi. Eppure la fisiologia del capodoglio è un capolavoro della natura. Arrivato negli abissi, inizia la sua caccia, sì perché il motivo di tale vorticosa discesa è motivato dalla sopravvivenza: il cibo. I calamari giganti che abitano le profondità costituiscono la sua preda preferita.

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Spesso l’epidermide dei capodogli presenta numerose cicatrici a testimoniare come i cefalopodi sappiano difendersi efficacemente con i loro tentacoli provvisti di ventose. In prossimità delle prede i capodogli si servono di un nuovo linguaggio costituito dai cosiddetti creak, ovvero dei click velocissimi emessi quando l’animale esamina da vicino un soggetto con il biosonar. Il capodoglio come i pesci e i crostacei che abitano le profondità hanno un metabolismo venti volte più basso rispetto agli organismi che navigano in acque superficiali. Soprattutto in animali che fanno i pendolari tra la superficie e le grandi profondità il metabolismo si riduce considerevolmente durante le immersioni. Si sottopongono cosi a condizioni estreme solo per il tempo necessario a cibarsi. Analoga è la condizione degli animali che vanno in letargo e che durante questo periodo hanno un metabolismo notevolmente ridotto. Stratagemma cui provvede la natura per garantire la sopravvivenza in condizioni estreme.

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Sott’acqua il cetaceo rimane circa 40 minuti senza respirare, ma può arrivare fino a 2 ore raggiungendo i 3000 metri di profondità.

Diverse popolazioni parlano dialetti diversi, ognuna ha un proprio codice, detto coda; i capodogli che usano lo stesso coda appartengono ad un clan, che si può paragonare ad una nazione. Un mondo acustico alquanto complesso, tanto che animali dai coda diversi sembrano non capirsi o semplicemente si ignorano. Sono trascorsi circa 30 minuti, il capodoglio dovrebbe riemergere. Scruto la superficie delle onde e lo ritrovo. il profilo del dorso si delinea tra le onde ed emerge con una pinna dorsale appena accennata. Il naso dei cetacei è ubicato in cima alla testa, come un boccaglio. Ma nel capodoglio è inclinato a sinistra per cui quando respira, il soffio emesso risulta incurvato in avanti e a sinistra. Con il gommone ci avviciniamo lentamente convergendo di lato, mai dal dietro o sul davanti.

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La ricercatrice a bordo del gommone mi rivela come si sia instaurata una stretta collaborazione con i pescatori del luogo nonostante i danni che i capodogli stanno arrecando all’industria della pesca.

Negli ultimi anni infatti parte delle nuove zone di alimentazione dei capodogli maschi si sovrappone a una zona in cui opera la pesca tradizionale utilizzando palangari per l’halibut, un pesce molto prelibato. Il palangaro è un attrezzo per la pesca costituito da una lunga lenza di grosso diametro in cui sono inseriti spezzoni di lenza più sottili dotati ognuno di un amo. E per ogni amo un halibut. Qui entrano in scena i capodogli che hanno imparato ad associare alle linee di pesca la presenza di questi pesci, arrivando a prelevarne un grande numero. Questo comportamento che si può definire depredazione, si diffonde nella popolazione dei capodogli attraverso l’apprendimento e può costituire un grosso problema per la pesca. Solo una cooperazione tra pescatori e ricercatori può portare a una soluzione. Cosi i pescherecci ricevono un foglio di registro per catalogare gli eventi di depredazione. Tramite la foto identificazione della coda, che costituisce una sorta di impronta digitale, vengono catalogati tutti i capodogli che depredano gli halibut. Una volta raccolti i dati, si potrà disporre di una panoramica completa di tutti gli esemplari identificati.

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L’analisi dei dati aiuterà alla comprensione dell’ecologia e del comportamento dei capodogli nell’Artico. Tramite un’azione di dissuasione effettuata con segnali acustici si cercherà di allontanare i capodogli dai pescherecci.

L’ ammirazione per questo cetaceo nasce anche dalla libertà sconfinata che lo caratterizza. Il suo potere d’azione lo porta ovunque voglia, non importa quali siano temperatura o pressione, la natura ha voluto fargli un dono, un privilegio concesso a pochissimi abitanti del mare. E chissà, forse il capodoglio inarca la coda anche come gesto di gratitudine per la concessione di quella libertà cui tutti gli esseri viventi ambiscono. Un insegnamento che arriva dal mare, dove nulla sembra impossibile. Uno stimolo a conoscere un animale cacciato per secoli in tutto il mondo e finalmente ora protetto e salvo dal rischio di estinzione.

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