Great Barrier Reef: riusciranno i volontari a restaurare la più grande opera della natura?

Grande Barriera corallina, Australia / © qualia- Swain Destinations

Dopo l’ultima estinzione di massa, avvenuta 250 milioni di anni fa, i coralli impiegarono dai due ai dieci milioni di anni per ripopolare il mare. Oggi la scienza sta cercando disperatamente di aiutarli a superare la crisi climatica perché la perdita delle barriere non riguarderà soltanto gli amanti del mare e delle immersioni.

I coralli, per anni, sono stati il mio principale datore di lavoro. Come guide e istruttori subacquei, avevamo a cuore la loro bellezza quanto la loro salute. Dieci anni fa la crisi climatica ancora non sortiva i suoi effetti più pesanti, ma già si parlava di allevare i coralli per trapiantarli nelle zone danneggiate. Sembrava una cosa molto complicata. Chi non ha mai visto i coralli, o non è interessato a farlo, s’è sicuramente perso qualcosa, ma la loro scomparsa non può lasciare nessuno indifferente. Dalle barriere coralline dipende il 25% di tutte le specie oceaniche. Nelle barriere trovano rifugio e protezione uova, larve e innumerevoli esseri durante il loro accrescimento. La loro biodiversità e il loro ruolo nell’ecosistema planetario sono paragonabili a quelli delle foreste amazzoniche e della Nuova Guinea. Mezzo miliardo di persone è legato alla loro salute, non solo per la pesca e il turismo: le barriere sono vitali per le coste. Le proteggono dall’erosione e da mareggiate potenzialmente catastrofiche. Purtroppo, negli ultimi trenta anni il 50% delle barriere poco profonde è andato perduto. Ciò che resta di loro scomparirà del tutto al massimo nel 2050.

Quella dei coralli è una storia iniziata 500 milioni di anni fa.

Il loro debutto sulla scena del mare risale al Paleozoico. Da allora subirono diverse estinzioni di massa, ma poi tornarono a ripopolare i mari. Nel Permiano-Triassico, che corrisponde alla fine dell’era Paleozoica – un quarto di miliardo di anni fa – scomparvero il 97% delle specie marine e il 70% dei vertebrati terrestri. Fu il più grande evento di estinzione di massa mai registrato sul pianeta Terra. La biosfera devastata impiegò dai 10 ai 30 milioni di anni per recuperare i livelli di biodiversità precedenti alla crisi. Le cause di quello che gli scienziati definiscono un ecocidio globale non sono ancora note, ma gli indizi mostrano impressionanti somiglianze alla crisi attuale: un ciclo anormale del carbonio, oceani acidificati e impoveriti di ossigeno, eccesso di anidride carbonica e solfuri, un probabile rilascio di metano nel mare e nell’atmosfera. Le barriere coralline vennero sostituite da massicci depositi di carbonati di origine esclusivamente microbica chiamati microbialiti.

Grande Barriera corallina, Australia

Ci vollero un paio di milioni di anni per veder risorgere barriere formate da esseri multicellulari. Se l’estinzione fu rapida, il recupero dei coralli – per i tempi geologici – fu breve, ma sulla scala temporale umana equivarrebbe a decine di migliaia di generazioni. Lo scenario attuale è meno cupo di quello del Permiano-Triassico: i coralli stanno migrando verso i poli e in profondità, dove oggi trovano le condizioni per salvaguardare i loro geni, ma le più grandi formazioni, come la Grande Barriera in Australia, perderanno la loro vitalità e il loro compito fondamentale nell’ecosistema marino. La natura, ai tropici e vicino alla superficie, sta già mettendo in atto il suo piano B: sostituire il corallo con l’alga. Coralli e macroalghe competono da sempre. Mentre le microalghe, come le zooxantelle, sono dei simbionti dei coralli – forniscono zuccheri ai polipi in cambio di cibo e riparo -le macroalghe si prendono il loro spazio impedendo la ricrescita del corallo sulle zone morte o danneggiate. Una repentina sostituzione dell’ambiente corallino con un habitat algale pone molte incognite, per noi umani. Prevedere ora evoluzione ed eventuali benefici è oltre la nostra portata in termini di dati, tempo e conoscenze. Quello che sappiamo è che c’è, che esiste una possibilità di ripristinare le barriere coralline. Accelerando la loro evoluzione, cioè l’adattamento a un nuovo ambiente. L’esperienza dei Caraibi, dove le barriere sono state danneggiate gravemente per prime, e in parte ripristinate, è stata fondamentale. Ma una speranza, pur controversa, sembra arrivare dalle lagune bollenti del Mar Rosso.

Il mio ultimo romanzo inizia proprio in un ambiente del genere, in una laguna del Golfo di Aqaba, dove le temperature sono storicamente altissime. Nella fiction un gruppo di ricercatori raccoglie campioni di corallo per carpire i segreti del loro adattamento, con la speranza di poter ricostruire le barriere danneggiate grazie ad organismi resistenti. Questo oggi si sta già trasformando in realtà. Gli scienziati hanno notato che non solo i coralli evoluti nelle lagune bollenti del Golfo di Aqaba possono sopravvivere, ma possono addirittura prosperare, con un accrescimento proporzionale all’innalzamento delle temperature. Dove altri coralli soffrono la variazione di 1°C, i coralli del Golfo di Aqaba possono sopportare temperature anche di 6° o 7°C più alte, e resistere in un mare acidificato. Ma lo spostamento dei coralli presenta delle difficoltà, non solo logistiche. L’ostacolo principale è di carattere bioetico. L’introduzione di organismi alieni in un nuovo ambiente può trasformarsi in un pericoloso cavallo di troia per le specie autoctone.

Pesce leone

Ne sappiamo qualcosa con le specie marine invasive, come il pesce leone, o Pterois volitans, introdotto accidentalmente nei Caraibi, e il pesce coniglio, Siganus luridus, che è entrato nel Mediterraneo tramite il canale di Suez e ben adattatosi grazie all’innalzamento delle temperature. Queste due specie hanno letteralmente devastato, rispettivamente, molti ecosistemi caraibici e una buona fetta del Mar Egeo e delle coste africane del Mediterraneo. Alcune alghe provenienti dal Mar Rosso hanno messo in crisi l’habitat di innumerevoli specie mediterranee. Davanti a questa prospettiva la tecnologia CRISPR può diventare una delle soluzioni: inserendo i geni dei coralli resistenti in coralli che soccombono al calore è possibile aiutarli a superare cambiamento climatico. Il suo impiego su vasta scala genera legittimi dubbi in termini di costi e di successo.

Una sorta di evoluzione accelerata è stata studiata e messa in atto a partire dal 2014 dal National Sea Simulator, gestito dall’Istituto Australiano di Scienze Marine, dove i coralli vengono esposti a temperature sempre più alte ad ogni ciclo produttivo. La ricerca ha dato già buoni risultati già dai primi tentativi di ripopolamento: alcuni coralli non sono sopravvissuti, ma ora la natura può scommettere su quelli che ce l’hanno fatta.

Il biologo Andrew Baker, dell’Università di Miami ha invece scoperto che alcune specie di coralli riescono a liberarsi delle alghe simbionti più suscettibili al calore per poi sostituirle con alghe più resistenti. Anche in Florida si sta lavorando sull’evoluzione accelerata, portando i coralli sempre più vicini alla superficie per forzarli ad adattarsi.

Alle Hawaii Ruth Gates, purtroppo scomparsa nel 2018, aveva sviluppato presso l’Istituto di Biologia Marina un programma chiamato Super Coral. Il programma, ancora avviato, prevede l’ibridazione tra i coralli allo scopo di selezionare le varietà resistenti alle alte temperature.

Ma che si tratti sia di coralli geneticamente modificati sia coralli naturalmente resistenti, l’operazione mostra una certa complessità: il primo passo è raccogliere i gameti dei sopravvissuti, preservandoli dai predatori, e sviluppare in vasca delle larve. Le larve così allevate svilupperanno dei polipi che costruiranno una struttura calcarea. I coralli, una generazione alla volta, verranno sottoposti a temperature gradualmente più alte. Parte delle nuove larve verranno rilasciate nell’ambiente sperando che attecchiscano, mentre altre lasciate a sviluppare in ambiente controllato. Tra i supporti utilizzati per l’accrescimento dei coralli in ambiente naturale vengono utilizzate apposite griglie sollevate dal fondo, o addirittura dei pali, per evitare che sabbia e risacca travolgano i rametti. Alcune reti, per accelerare sviluppo e attecchimento vengono elettrificate. Successivamente i coralli saranno tolti dai supporti e innestati sul reef degradato, oppure lasciati in loco per disperdere i loro gameti durante lo spawning.

Trapianto di coralli su rete, per far crescere coralli più resistenti / © The U.S. Army

L’utilizzo di queste tecnologie, soprattutto se su una scala adeguata all’emergenza, comporta costi più alti di un programma spaziale. Malgrado l’Unesco abbia sviluppato Resilient Reefs, un programma mirato, e malgrado i milioni di dollari donati alle varie ricerche da filantropi come Paul Allen, ex socio di Bill Gates, i governi non sembrano pronti ad affrontare programmi così vasti e costosi. Nel 2018 il governo australiano ha stanziato 500 milioni di AUD$, circa 300 milioni di Euro. Possono sembrare una cifra enorme, ma solo per limitare i sedimenti riversati sulla Grande Barriera, fa notare la Water Science Taskforce del Queensland, ci vorrebbero 8 miliardi. La scomparsa delle barriere coralline dal pianeta comporterebbe una perdita economica mille volte maggiore, il danno globale ammonterebbe a circa 9 mila miliardi di dollari, circa tre volte il debito pubblico complessivo dell’Italia.

Pesce Pappagallo

Sfruttamento del suolo e CO₂ sono le prime cause del degrado delle barriere in tutto il pianeta. Il disboscamento e l’agricoltura intensiva hanno favorito la corsa verso il mare di sedimenti ed altri inquinanti. La CO₂ ha invece contribuito all’aumento delle temperature, ma anche all’acidificazione dei mari, mettendo in pericolo tutte le creature che costruiscono gusci e strutture calcaree per poter sopravvivere. Un fattore non indifferente è la pesca. Il divieto di pesca del pesce pappagallo in alcune aree dell’Honduras è stato tra i fattori determinanti nel permettere ai reef di riprendersi. Le specie erbivore, come appunto il pesce pappagallo, tengono incessantemente sotto controllo l’alga, creando aree di ricrescita per i coralli. Eliminare altri fattori di stress, quali i sedimenti e le voracissime ‘corone di spine’ , Acantasther planci, completano il quadro del fattibile.

Saranno la Citizen Scienze ed i subacquei a sostenere i coralli durante questa travagliata fase del loro viaggio.

Ombreggiatura e schermo solare con pellicole in superficie / © Phil Mercury

L’esperienza dei Caraibi ha suggerito che è possibile iniziare un programma di ripopolamento dalle aree dove i coralli hanno resistito alle varie ondate di calore. Reef Restoration and Adaptation Program è una partnership tra i maggiori enti di ricerca ed università australiane. Ha in cantiere più misure d’intervento, dall’ombreggiatura del reef con nuvole artificiali e schermi meccanici, al ripopolamento con coralli resistenti. Tra le azioni da mettere in campo spicca l’utilizzo di subacquei volontari o paganti. I rametti di corallo possono attecchire e dar vita a una nuova colonia, ma solo se trovano un substrato idoneo. A questo scopo si usano speciali colle nutrienti o supporti, per lo più ceramici, da innestare sul reef con colle o viti. L’operazione è laboriosa, richiede del tempo e una certa destrezza da parte dell’operatore subacqueo. Per coprire un’area vasta le zone danneggiate della Grande Barriera servirebbero decine di migliaia di subacquei impiegati per tantissimo tempo. La novità è il Coralclip®, un supporto meccanico biodegradabile che sostituisce la colla. Con questo sistema rapido di fissaggio una squadra di otto subacquei è stata in grado di innestare 3200 nuovi coralli in una sola giornata. Il successo dell’operazione dopo 7 mesi era dell’85%, con i coralli trapiantati ancora in sede. L’idea è stata recepita da diversi tour operator che nel turismo subacqueo vedono una soluzione alla manodopera necessaria per portare avanti un progetto di così vasta scala.

Non saranno però questi tentativi a salvare le più importanti barriere del pianeta. Sulla faccenda tutti gli scienziati e tutti i gruppi di lavoro sono d’accordo: senza un controllo sul clima e senza un adeguato monitoraggio della pesca e degli inquinanti, il problema resterà ampiamente irrisolto. Vale comunque la pena sostenere quella che forse sarà una delle più grandi avventure umane: il ripristino della Grande Barriera Australiana. Sarà forse l’impresa umana più grande dopo la costruzione della muraglia cinese. E qui vale la pena ricordare che la muraglia cinese non si vede dallo spazio. La Grande Barriera sì.

Per approfondire:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *