Cronache artiche. Una yurta nelle foreste finlandesi
Camminando verso la yurta
— Hai paura dei cani?
— No, affatto.
— Sicura?
— Certo. Nessun problema.
Mento spudoratamente. La verità è che non ho una gran familiarità con i cani in generale. Figuriamoci se si tratta di cani primitivi, cioè delle primissime razze di cani domestici: quelle non ancora toccate dalla selezione genetica. In pratica, l’anello di congiunzione tra il cane domestico e il lupo. Passo in mezzo a due file di splendidi esemplari di razza Taïmyr, gli antenati dei Samoiedo. Trentaquattro, in tutto. Laetitia, che cammina al mio fianco, sorride sotto i baffi. “Tranquilla, sono buonissimi. Ancora cinque minuti e arriviamo alla yurta.” Annuisco sistemandomi lo zaino sulle spalle. Per arrivare qui ho camminato a occhio e croce per nove chilometri da Ivalo verso Sud, prima lungo la strada principale — la Rovaniementie — e poi inerpicandomi lungo un sentiero in mezzo ai boschi. Tutto questo, solo perché ho perso un autobus, cosa — peraltro — che ho messo più o meno all’ordine del giorno.
Agosto 2019: sono arrivata quassù, all’estremo nord della Finlandia (una cinquantina di chilometri a sud del lago Inari) salendo in treno da Helsinki a Rovaniemi e poi puntando a nord via autobus. Nessun problema per quanto riguarda le lunghe tratte, le cose cambiano, però, quando si tratta di spostarsi di pochi chilometri. A quel punto, il sistema di collegamenti vacilla e prendere un autobus diventa un terno al lotto. La soluzione, per chi non ha la patente come me, è solo una: gambe in spalla e via, a piedi.
Basta poco, d’altra parte, perché nel giro di due settimane il concetto stesso di distanza si ricalibri automaticamente su una media di una quindicina di chilometri a piedi al giorno. Tanto più che ci tenevo proprio a venire qui, nel quartier generale di Primitif Aventure.
Augustin e Laetitia sono due ragazzi francesi che hanno — letteralmente — “spostato le tende” quassù, dove vivono nel cuore della foresta insieme ai loro cani da slitta, organizzando spedizioni fra i ghiacci nel periodo invernale.
In realtà, però, io non sono qui per loro ma per la loro yurta. Ho deciso di passare un po’ di tempo completamente sola, in una tenda nel cuore della foresta, senza elettricità né acqua corrente. Si tratterà solo di tre, quattro giorni massimo. Una breve parentesi che non ha niente a che vedere con quella che per Laetitia e suo marito è stata una vera e propria scelta di vita. Tant’è che non riesco a fare a meno di chiederle com’è nata l’idea di trasferirsi qui, trecento chilometri a nord del Circolo Polare Artico
Sognando i ghiacci, dal Québec alla Finlandia
“In realtà potrei dirti che l’idea di venire a vivere qui è nata quando eravamo bambini. Augustin voleva fare l’esploratore polare e io sognavo di vivere con i miei cani in mezzo alla natura selvaggia. Praticamente come viviamo ora.” Le faccio notare che un po’ tutti, da piccoli, sognavamo di fare cose che poi, puntualmente, non abbiamo portato a termine e che tra il dire e il fare c’è di mezzo la vita. Lei annuisce. Continua a camminare con la giacca slacciata e nonostante sia un’estate a 8 gradi, mi chiedo come diavolo faccia a non avere freddo. “Sì, in un certo senso siamo rimasti fedeli ai nostri sogni. Il punto, più che altro, è stato decidere dove trapiantarli perché mettessero radici. Per arrivare qui dove siamo ora, abbiamo fatto un giro un po’ lungo, passando per il Québec.” Come per il Québec? “Sì, abbiamo vissuto nel Québec più o meno per due anni. Augustin ha seguito un percorso di formazione per diventare guida per qualsiasi attività — di esplorazione e di soccorso — nelle regioni isolate. Io, intanto, lavoravo per alcune strutture che sensibilizzavano le persone alla conservazione della fauna e flora terrestri e marine del Nord. Sono stati due anni intensi. È allora che abbiamo vissuto per la prima volta in una yurta temporanea, che abbiamo creato e montato con le nostre mani. L’idea era quella di riconnetterci con la natura e di imparare a vivere in base ai suoi ritmi.”
L’ululare dei cani, ormai, è solo un’eco alle nostre spalle. Tra gli alberi, intravedo la mia yurta, un piccolo lago e una cabina di legno, probabilmente la sauna. Mi chiedo cosa voglia dire vivere in uno spazio così per due anni. Laetitia mi racconta del loro arrivo in Finlandia: “Abbiamo scoperto la Lapponia finlandese in modo del tutto casuale: siamo venuti a lavorare da queste parti per due anni con i cani Taïmyr ed è finita che abbiamo deciso di rimanere e dare il via al nostro progetto, Primitif Aventure. All’inizio (il nostro primo figlio era nato da poco) abbiamo vissuto in una yurta, poi — con la nascita del secondogenito — abbiamo ordinato un kit di costruzione e abbiamo tirato su il nostro piccolo chalet. Che peraltro è ancora work in progress. Ci aiutano due ragazzi che sono qui con Workaway, un progetto di scambio: in pratica noi offriamo vitto e alloggio e loro ci aiutano con i cani e con la costruzione dello chalet.” Pannelli solari per l’elettricità (ma di sole ce n’è poco), una stufa a combustione lenta, bagni a secco, riciclo dei rifiuti organici e un pozzo per l’acqua.
Faccio fatica a farmi un’idea degli sforzi che ci devono essere dietro a una scelta come quella di Laetitia e Augustin. Decidere di vivere into the wild non è senz’altro un colpo di testa romantico ma qualcosa di estremamente concreto, che richiede una volontà di ferro e tonnellate di pragmatismo.
Idem per quanto riguarda i due ragazzi che mi hanno accolta al mio arrivo: Hugo è di Bordeaux, studia ingegneria aeronautica ma ha deciso di prendersi una pausa mentre Benjamin è un artigiano del vetro e come lui, è qui da qualche mese.
Fra una chiacchiera e l’altra, intanto, siamo arrivate alla yurta che — contrariamente alle mie aspettative — non è per niente piccola, anzi. Dentro, ci sono due letti a castello, un piccolo divano, una stufa e una botte di plastica azzurra piena d’acqua fino all’orlo, con un mestolo. La userò per bere e per lavarmi. Laetitia mi mostra anche una riserva di legna e qualche foglio di giornale che mi serviranno per la stufa. “Qui i sentieri non sono molto ben tracciati. Hai un buon senso dell’orientamento?” mi chiede. Rispondo di sì. In realtà non è vero, ho un pessimo senso dell’orientamento ma sono abituata a perdermi e a ritrovare poi la meta. “Ad ogni modo, fai presto a ritrovare la strada. Sentirai i nostri cani ululare. Dico sul serio, sono meglio di una bussola.” mi dice Laetitia. La guardo allontanarsi nel bosco, verso il suo chalet e rimango sola, a reinventarmi le mie giornate.
Nella yurta. Imparare a covare il fuoco
La prima cosa che capisco subito, infatti, è che per partire col piede giusto mi conviene stabilire una scala molto elementare di priorità. Punto primo, spengo il cellulare che userò col contagocce giusto per fare qualche foto e, di tanto in tanto, per dire al mio compagno che sono viva e sto bene. Di tenerlo acceso tutto il tempo, non se ne parla proprio. Il posto più vicino in cui potrei ricaricarlo è a sette chilometri da qui e non ho una gran voglia di andarci. Seconda cosa: ho un problema e devo risolverlo al più presto. Mi è bastata un’occhiata ai fogli di giornale per capire che accendere il fuoco non sarà uno scherzo. L’umidità si fa sentire e non poco. Provo a maneggiare il coltello come ho imparato a fare a Rovaniemi, sfilettando l’interno del ceppo in piccoli trucioli che prenderanno fuoco facilmente. Il metodo di solito funziona ma in questo caso — prima di riuscire ad accendere uno straccio di fiamma — faccio fuori un’intera scatola di fiammiferi. Dopodiché, tempo cinque minuti e il fuoco si spegne. No, così non va.
Capisco subito che devo inventarmi qualcosa e farlo in fretta. Di notte, la temperatura calerà e va bene che è estate ma dormire senza fuoco è impensabile. Che fare? La risposta la trovo non appena metto il naso fuori dalla yurta e adocchio la sauna. Eccola lì, la mia salvezza! Torno alla yurta, trasporto a braccia legna e giornali in sauna e accendo la stufa lì dentro. Due piccioni con una fava: mi concedo la mia sauna quotidiana (sono in Finlandia da due settimane e non riesco più a farne a meno) e intanto asciugo la legna che poi riporterò nella yurta.
Dalla piccola finestra alla mia destra, le acque del Kirstinlampi moltiplicano all’infinito il verde dei pini e degli abeti. Da lontano, sento ululare i cani. Getto un mestolo d’acqua sulle pietre peridotitiche accatastate sulla stufa a legna. Il vapore riempie la cabina: profuma di legno e di terra. Siamo lontani anni luce dalle saune urbane. Niente polpettoni di musica new age, oli profumati e luce elettrica. Qui tutto è ruvido e autentico. Essenziale. Mezz’ora dopo, infatti, trovo del tutto naturale uscire nuda dalla cabina, prendere un secchio d’acqua dal lago e improvvisarmi una doccia en plein air. Quando torno alla yurta, mi porto dietro un tizzone e un ceppo per iniziare a scaldare la stufa. Poi ritrasferisco la mia legna, ormai perfettamente asciutta, dalla sauna alla yurta e finalmente il fuoco prende.
Mentre mi preparo la cena, disegno tra me e me la mappa mentale dei prossimi giorni. La mia idea era camminare a oltranza in mezzo ai boschi e certo, lo farò. Prima, però, farò altre cose che diventeranno lo scheletro portante delle mie giornate: raccogliere legna, asciugarla, tenere acceso il fuoco, cogliere mirtilli freschi per evitare di mangiare solo minestre liofilizzate, trovare qualche germoglio d’abete per farmi una tisana contro la tosse. Ripartire dalle basi, dall’essenziale, per me significa ritrovare il piacere delle radici. Quelle che, paradossalmente, mi fanno sentire allacciata alle cose solo mentre viaggio.
La notte, il buio e il silenzio che bussa alla porta
L’architettura dei giorni successivi si disegna spontaneamente. La rosa di attività prioritarie che mi sono prefissata, finisce per riassumersi in un unico grande concetto: tenere acceso il fuoco. Gli dedico il mio tempo sapendo che non si tratta di spreco ma di tempo buono, che mi aiuta a rallentare e a scoprire il senso profondo della casa intesa come focolare.
Di giorno mi perdo. I sentieri, in effetti, sono tracciati quel tanto che basta per buttarti in braccio alla foresta senza troppi complimenti. Come mi ha detto Laetitia, però, in effetti l’ululare dei cani mi fa da bussola e riesco sempre a ritrovare la strada ‘di casa’. Ed è lì, nella yurta, che trascorro i momenti più belli. Di notte.
Per star dietro all’esigenza di mantenere il fuoco acceso il più a lungo possibile, ogni volta finisco per fare le ore piccole. Su un letto, poi, ho trovato un libro di mitologia lappone che si trasforma seduta stante nella mia lettura preferita. L’unica luce è quella del fuoco, dietro il vetro della stufa. Mi ci ranicchio contro ogni sera e scopro che per i Lapponi la stella polare è il pilastro che regge il tetto del mondo. Che ogni giorno, da prima che esistesse il tempo, il dio del tuono rincorre Meandash — una renna dagli occhi di fiamma — e che quando la caccia finirà e la renna verrà uccisa, il mondo collasserà su se stesso. Leggo che per i Lapponi l’aurora boreale è una volpe dalla coda di fuoco, che corre all’impazzata per i cieli del Nord. Mentre in altri racconti, le luci del Nord sono un dio che ama la figlia della Luna e che la notte giace con lei, di nascosto dal Sole.
A volte mi appisolo e mi risveglia, da lontano, l’ululare dei cani o il rumore sottile della pioggia sul tetto della yurta. Tutto segue una cadenza tranquilla, che è prevedibile senza diventare mai monotona. Tranne l’ultima notte, quella in cui effettivamente qualcosa succede. Mentre metto un ceppo nella stufa, fuori dalla porta sento un rumore di passi che non ha niente di umano. Sono circa le due del mattino. Mi fermo e ascolto. Il rumore continua e si avvicina alla mia tenda. Impossibile che sia un orso! Apro la porta ed esco. Il vento ha spazzato via le nuvole e fra gli abeti è tutto un brulicare di stelle. A est il cielo è completamente buio, a ovest no: c’è ancora una sottile, limpidissima linea di luce, affilata come un coltello.
Ed è proprio allora, mentre mi giro verso occidente, che la vedo. A mezzo metro di distanza da me c’è una renna che mi guarda nel buio, con le corna — ramificatissime — che spiccano contro le luci dell’ovest. Rimango immobile. Mi basterebbe tendere un braccio per toccarla, ma non lo faccio. Torno alla yurta e mi infilo nel sacco a pelo. Fuori, i passi si allontanano piano e i cani non si sentono più.
La foresta respira nel buio.
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