Bolle di metano e cambiamento climatico

Lago Abraham, Canada / © Rex Features.jpeg

Da poco abbiamo parlato delle fascinose e terrificanti bolle di metano ghiacciate per esaltare la bellezza di alcuni fenomeni naturali straordinari. Ma cosa succede quando queste bolle di gas intrappolate nel ghiaccio si liberano nell’ambiente circostante? La prima risposta che viene in mente, trattandosi di gas infiammabile quando a contatto con l’ossigeno, è che possano esplodere in nuvole di fuoco. Beh, bello da immaginare o vedere, sì, ma non vorreste mai vederne nessuna sprigionarsi dai ghiacci se sapeste di quanti miliardi di tonnellate si parla. Ebbene, proviamo a capire meglio di cosa si tratta.

Innanzitutto vi ricordo che il metano è un gas che ha origine dalla decomposizione di materia organica operata da batteri anaerobi; in pratica è la chiusura del ciclo del carbonio in ambienti privi di ossigeno. Le condizioni di anossia sono tipiche degli strati profondi delle torbiere o sui fondali marini e lacustri.

Possiamo individuare, quindi, delle zone del pianeta con una vasta estensione di ambienti simili? Alle alte latitudini, generalmente al di sopra del sessantesimo parallelo, sono presenti le più grandi torbiere del pianeta, in virtù delle condizioni climatiche ottimali per la loro formazione. Le basse temperature che caratterizzano queste zone del mondo fanno sì che il suolo presente si congeli permanentemente, con profondità che possono raggiungere un massimo di 1500m in Siberia. Si tratta del permafrost, i cui strati basali non hanno mai subito scongelamento dall’ultima era glaciale, ovvero circa diecimila anni fa. Questo strato di suolo congelato può trovarsi anche sotto il fondo dell’oceano, a patto che ci siano le temperature minime utili, ovvero ai poli del Pianeta. Dove c’è il permafrost, quindi, avremo condizioni di anossia e più o meno abbondanti formazioni di gas metano intrappolate nel ghiaccio. In un mondo che si sta riscaldando sempre più velocemente, è un problema di non poco conto, eppure continua a passare in secondo piano.

Bolle di metano congelate nel lago Bajkal, Russia/ © Kristina Makeeva

Meno di un mese fa si è tenuta la conferenza Scientists Warning / Europe ’20: “The Threat from Arctic Methane”, durante la quale è intervenuto uno degli scienziati più esperti in materia, il professore emerito Peter Wadhams dell’Università di Cambridge, con più di cinquanta spedizioni ai poli. Il dott. Wadhams ha spiegato che l’enorme riserva di metano intrappolata sotto i ghiacci polari sarà presto rilasciata in atmosfera a causa del riscaldamento globale e che questo rappresenta “una minaccia seria e definitiva alla nostra futura esistenza su questo pianeta”. Solo due settimane dopo, il 9 dicembre, è stato pubblicato su Scientific American l’Artic Report Card annuale dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), con una terrificante istantanea delle attuali condizioni del “Nuovo Artico”. Come è possibile che tutto questo passi inosservato? Finché non si comincerà a parlarne, nessuno capirà le conseguenze di questa imminente catastrofe e, quindi, nessuno muoverà un dito per cambiare le cose.

Oggi tutti, o quasi, conoscono le principali conseguenze del riscaldamento globale, ma pochi, pochissimi, hanno una visione d’insieme. Cominciamo col dire che questo fenomeno di innalzamento delle temperature medie globali interessa maggiormente alcune zone rispetto ad altre, tra cui proprio le calotte polari che arrivano a +5° rispetto alle temperature medie annue. Qui l’intensificazione dell’effetto serra, dovuto all’incremento dei gas climalteranti, provoca lo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost con una velocità sempre maggiore. Come dicevo, la prima conseguenza logica, e quindi quella conosciuta da tutti, è l’innalzamento del livello del mare che porta, tra le altre cose, alla scomparsa di molte località antropizzate sulle linee costiere. Purtroppo il problema non si limita a questo, bensì si amplifica con una serie concatenata di ripercussioni sull’equilibrio che regola l’interazione aria-acqua-temperatura dell’intero pianeta Terra.

Lago Abraham, North Saskatchewan, Canada / sopra: © Edwin Martinez – sotto: © Rex Features

Senza scendere in particolari tecnicismi, possiamo dire che la fusione delle calotte polari porta al raffreddamento dei mari vicini e alla diminuzione della salinità per diluizione; questo si ripercuote sul funzionamento delle correnti oceaniche, come la Corrente del Golfo, che regolano i climi del mondo secondo flussi a differenti gradienti termici e salini. Interrompere o alterare questo flusso vuol dire compromettere ulteriormente le temperature globali.

Con lo scioglimento dei ghiacci perenni, inoltre, si rimette in circolo l’enorme stock di carbonio accumulato in eoni, sottoforma di metano (CH4) e anidride carbonica (CO2). Entrambi i gas rientrano nella categoria dei climalteranti, ma il metano è molto più temuto poiché riesce a intrappolare il calore con un’efficienza 23 volte superiore a quella della CO2, nonostante una permanenza in atmosfera di circa 1/10 rispetto all’anidride carbonica (100 anni). Una stima al ribasso ha calcolato un immediato innalzamento delle temperature medie globali di 0,6°C come conseguenza del rilascio in atmosfera del metano intrappolato sotto l’Artico. Una bella cifra spaventosa, se consideriamo che le attività umane a maggior impatto ambientale hanno impiegato circa 50 anni per far registrare un innalzamento della temperatura media globale di circa 1°C.

© University of Alaska Fairbanks – Nicholas Hasson

L’aspetto più angosciante è che le condizioni di innesco di questa tremenda catastrofe sono sempre più simili alle attuali condizioni del Polo Nord. La costante riduzione estensiva della calotta polare, infatti, lascia scoperti i fondali oceanici e le torbiere per periodi più lunghi, esponendoli a temperature più alte. La radiazione solare che batte su queste superfici, un tempo coperte dal riflettente manto bianco dei ghiacci, fa assorbire una quantità di calore che prima non entrava nel computo terrestre (poiché riflessa), e che ora si irradia negli strati sottostanti, fino a scogliere anche quelli più profondi. Tutto ciò, quindi, non fa che accelerare ulteriormente lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento delle temperature terrestri, secondo un nuovo ciclo di reazione climatica.

Il ruolo del metano nelle sorti del cambiamento climatico è ancora poco dibattuto nella comunità scientifica, poiché vi sono pareri discordanti riguardo la velocità con cui potrebbe avvenire la liberazione di queste masse gassose. Allo stesso modo si discute sulla quantità di CH4 che effettivamente viene liberata in atmosfera a seguito della risalita nella colonna d’acqua; gli scienziati dell’IPCC, infatti, sostengono che questo gas venga quasi totalmente disciolto in mare, mentre il dott. Wadhams ed altri esperti di settore dicono che questo avviene solo quando le bolle risalgono da profondità superiori ai 200m. Le motivazioni degli esperti glaciologi si basano su diverse caratteristiche chimico-fisiche del metano e della sua interazione con l’acqua: trattandosi di un gas molto leggero, è facile che una buona quantità di metano riesca a raggiungere la superficie, e quindi, l’atmosfera, prima che si disciolga in mare; inoltre, poiché la solubilità dei gas diminuisce con l’aumento della temperatura, il riscaldamento degli oceani porterebbe ad un maggior rilascio delle fasi gassose in essi disciolte. Su una cosa, però, sono tutti d’accordo, ovvero che questo processo è stato innescato.

Noi tutti speriamo che ad aver ragione siano gli scienziati più ottimisti, ma intanto i nuovi studi non regalano molte buone notizie.

Cratere nel permafrost, Siberia / © ambientebio.it

Un team internazionale di ricerca, durante una spedizione nei mari a nord della Russia (da Leptev a Kara) ha registrato quantità di metano dalle 4 alle 10 volte superiori a quelle attese. Dalle colonne d’acqua di alcune zone si potevano osservare bolle di metano che fuoriuscivano dall’acqua, come in una pentola, e che entravano direttamente in atmosfera. Questo fenomeno avviene anche sulla terraferma ed è conosciuto come termocarsismo; si riferisce, appunto, alla formazione di bolle gassose che sotto la superficie collassano, sprigionando metano e lasciando crateri nel suolo. Il riempimento di queste cavità con acqua a maggiore temperatura, poi, accelera ulteriormente lo scioglimento del permafrost, superficiale o sottomarino che sia. Secondo uno studio pubblicato su Nature Geosciences, la superficie che circa un secolo fa era interessata dal termocarsismo si estendeva per soli 905Kmq (circa il 5% della regione artica), mentre entro il 2100 si arriverà a 1,6 milioni di chilometri quadrati e a 2,5 entro il 2300. Una data che, probabilmente, non vedremo mai arrivare.

 

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